Joaquín Archivaldo Guzmán Loera detto El Chapo (il tappo) è stato un potente boss del narcotraffico messicano, capo del cartello di Sinaloa, sin dagli anni ’80 fino al 2017, quando fu estradato negli USA dopo varie evasioni dalle carceri messicane e dopo aver fatto fuori gli altri cartelli, in particolare quello di Juárez. Deve scontare la pena dell’ergastolo in regime di massima sicurezza, mentre l’organizzazione è ora gestita dal figlio Ovidio Guzmán. Cinque i libri tradotti in italiano sulla storia de El Chapo, l’ultimo del 2024 (El Chapo. La storia di uno dei narcotrafficanti più famosi del mondo, di Terry Burrows). Dal 2018, tre stagioni su Netflix: dall’ascesa alla cattura, fino alla fuga. Numerosi i film sul narcotraffico, in particolare quello messicano, con attenzioni distribuite per i governi, i cartelli, le forze dell’ordine, i consumatori e, talvolta, i gruppi sociali coinvolti nella filiera produttiva. Tra le produzioni messicane: El Chapo, la fuga del secolo, film per la TV del 2016. Produzioni messicane, con attori e registi messicani che hanno entusiasmato gran parte dei messicani.
Un film anti messicano?
Non altrettanto entusiasta l’accoglienza per la storia immaginaria di Juan “Manitas” Del Monte, boss di un cartello della droga che a un certo punto della vita decide di diventare donna: Emilia Pérez. Film del 2024, suggerito da un capitolo del romanzo Écoute del francese Boris Razon e diretto dal francese Jacques Audiard, interpretato dalla madrilena Karla Sofia Gascón, dalla statunitense di origini dominicane e portoricane Zoe Saldana, dalla statunitense con padre messicano Selena Gomez e, unica messicana, Adriana Paz che interpreta, però, un personaggio secondario. Produzione di più case tutte francesi con l’eccezione di una piccola messicana. Film girato in gran parte in uno studio francese, in lingua originale spagnola (non messicana) e inglese. Insomma, poco messicano per parlare di Messico, un’operazione del mercato cinematografico, in questo caso quello francese che, comunque, non dovrebbe stupire. Tuttavia molti messicani, ancor prima che il film fosse in distribuzione si sono pronunciati contro, sostenuti da diversi articoli di El Paìs o Libération. E ora anche da molti commenti italiani.
Anti messicano? “Manitas”, nome attribuito a Del Monte, non è forse casuale per rispondere alla domanda. Diversamente dallo spagnolo iberico “tuttofare”, in messicano significa “mano” nelle espressioni «dammi una mano, un aiuto». Ed è forse quello che chiede Del Monte, non solo per esempio a Rita, avvocata cinica e complice di un sistema giudiziario corrotto, ma a tutti, spettatori compresi, anche con i testi delle canzoni. Certo, a modo suo. Un po’ bene un po’ male, un po’ maschio un po’ femmina, un po’ madre un po’ padre, un po’ connivente un po’ antagonista, un po’ dalla parte dei malfattori un po’ dalla parte dei benefattori… tutto e il contrario di tutto come il profilo di ciascun personaggio, ma si può scegliere, si può aiutare a scegliere, si può condividere, come sembra indicarci Jacques Audiard con il finale. Basta riporre fiducia in sé e negli altri e “redimersi”. Bello a questo proposito l’inno Las Damas que Pasan interpretato da Adriana Paz, una rilettura delle Passanti di Brassens.
Un film musicale particolare dove le canzoni, anche quelle famose, utilizzano il testo della sceneggiatura, per cui sono parte integrante del racconto. La colonna sonora strumentale del film è stata scritta da Clément Ducol, mentre i brani originali sono stati composti dalla cantautrice francese Camille. Camille e Clément Ducol hanno vinto il Golden Globe 2025 per la miglior canzone originale con El Mal cantata da Zoe Saldaña, Karla Sofia Gascón e Camille. Infine, Selena Gomez, che nel film recita, canta anche alcune canzoni, tra cui Mi Camino.
Ma anche così molti messicani, a film uscito, non hanno comunque colto o apprezzato, alcuni si sono addirittura offesi. Jacques Audiard si è scusato in una intervista alla CNN Latinoamérica, sostenendo che funzione del cinema è porre domande e non dare risposte o indicazioni.
Quanto sono estreme le persone non binarie per la società?
Il film ha posto alcune domande esplicite a tutti gli spettatori; altre, più sotterranee, solo per alcuni. Tra le prime, quelle sui diritti ancora inevasi: di genere, del lavoro, della vita relazionale e della convivenza. Domande sull’abuso di potere da parte di politici e funzionari che agiscono senza scrupoli, sulla corruzione e le disuguaglianze sociali (El mal). E non solo in Messico.
Quelle meno esplicite sono le domande che possono sorgere dal percorso di Manitas Del Monte per cambiare il proprio sesso biologico. Dalla ricerca del centro medico a cui affidarsi, girando per il mondo, al trattamento più appropriato a cui sottoporsi e alle difficoltà, anche relazionali, personali e dell’intera comunità sociale a cui far fronte. Il tema dei diritti della comunità Lgbtiqa+ (persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer, intersessuali, asessuali e chiunque non si definisca eterosessuale) non è un’esclusiva messicana, ma globale. La leyenda, come la definisce Audiard per sottolineare il racconto immaginario del film e per ampliare l’esaltazione e l’esemplarità di un diritto negato, di un desiderio nascosto, sceglie una figura estrema come un boss del narcotraffico. Quindi una delle domande nascoste è: ma sono così estreme (alla società) le persone con identità di genere e orientamento sessuale che non aderiscono alla visione etero-normativa o binaria? In particolare le persone transgender?
Consapevolezze precoci
«Lo so da quando avevo 4 anni. Vedevo altre ragazze e dicevo: “Voglio essere così”». Lo dice Karla Sofia Gascón in un’intervista, ma è quello che dice anche Manitas Del Monte al chirurgo che raccoglie l’anamnesi prima di decidere se operarlo. Quindi «ben prima della transizione, sanno già quello che vogliono essere». Con quale motivazione? «Se il corpo cambia, cambia l’anima. Se l’anima cambia, cambia la cultura. Se la cultura cambia, cambia la società».
Va bene, è solo un musical, ma induce a pensare ai corpi anche rispetto alla cultura, al percepito e al rielaborato personale di ciascuno. Quindi, non sarà che una parte della collettività messicana (ed europea e italiana) che è insorta contestando il film, si sia sentita vittima violata in “un sentimento collettivo” di fronte alla riassegnazione di genere e all’angoscia di castrazione che il percorso delle persone transgender da maschio a femmina suscita? Quel sentimento collettivo cui si riferisce Jung (Sulla questione dell’intervento medico. Opere, volume XVIII, Bollati Boringhieri 1993).
Già dal 2012: il protocollo olandese
Altre domande affiorano oltre lo schermo. Per esempio: che cosa sarebbe successo se la disforia di genere di Manitas Del Monte fosse stata trattata per tempo, in età puberale? Ovviamente non lo sappiamo, è anche difficile ipotizzarlo. Sì, perché la valutazione dei vari interventi psicologici e farmacologici nella disforia di genere in pubertà è scarsa e l’esito è affidato più a raccolte di case stories e non a studi clinici ed epidemiologici formali, sia a livello nazionale che internazionale. È anche il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, che nel dicembre scorso si è infine pronunciato sull’uso della triptorelina per il trattamento della disforia di genere che è consentito in forma off-label da una determina dell’Agenzia del farmaco del 2019.
Dopo tanto clamore, polemiche e annunci, che abbiamo raccontato qui, il Cnb nei fatti ha riconfermato quanto già comunicato nel 2018. Tutto questo sebbene a livello internazionale il protocollo di trattamento, prima psicologico e poi anche farmacologico, sia pressoché comune, il cosiddetto protocollo olandese, pubblicato già nel 2012. L’approccio olandese alla gestione clinica dei bambini prepuberi di età inferiore ai 12 anni e degli adolescenti a partire dai 12 anni con disforia di genere raccomanda una «valutazione approfondita di tutti gli aspetti vulnerabili e, quando necessario, un intervento appropriato». Aspetti vulnerabili difficili da valutare e intervento appropriato da garantire (anche) al giovane Manitas Del Monte, ma da tempo raccomandati per soggetti prepuberi o postpuberi con disforia di genere.
Quello che serve, tuttora, è un maggior numero di dati scientifici validati sull’efficacia e i rischi dell’uso dei bloccanti della pubertà, prodotti da studi clinici indipendenti finanziati anche dal ministero della Salute (come raccomanda il Cnb) e che comprendano la valutazione dell’intero percorso psicoterapeutico e psicologico, eventualmente psichiatrico e clinico-farmacologico a breve e a lunga distanza.
I pregiudizi che ostacolano invece di accompagnare
Della triptorelina il film non ci parla, ci dice solo della terapia ormonale sostitutiva inefficace durata due anni prima dell’intervento di riassegnazione di genere.
Ci dice però degli stessi pregiudizi, politici e culturali, che ostacolano invece di accompagnare chi ha bisogno di fare chiarezza per decidere se intervenire sulla propria identità di genere a partire dalla giovane età. Non possiamo sapere gli effetti di un percorso terapeutico precoce sulla disforia di genere di Manitas Del Monte, magari non sarebbe diventato narcotrafficante, con l’indotto di illegalità che si porta appresso.
Eppure è una domanda che la realtà ci pone quando i pregiudizi e le contrarietà prevalgono sull’imparzialità, l’obiettività, e l’equità di accesso a un diritto. Emilia Peréz questo diritto se l’è preso lottando per i propri sogni. (Quiero quererme a mí misma Querer, sí, mi vida Querer, sí, lo que siento (es mi camino) Es mi camino Quiero quererme a mí misma (mi camino) Quererme así, toda (es mi camino) Quererme así como soy (mi camino)). Forse perché era Manitas Del Monte, e gli altri?