Si è messa in discussione recentemente, attraverso un dibattito ripreso sui media, l’opportunità per le università italiane di coltivare progetti di Terza Missione – oggi definita in realtà “valorizzazione delle conoscenze” – termine con cui si indicano tutte le attività, di solito organizzate in specifici progetti, attraverso cui l’università interagisce con il mondo imprenditoriale, le istituzioni pubbliche e private, i diversi settori del volontariato, più in generale con la società nel suo insieme.

Dal dibattito, purtroppo, sembra essere emersa un’immagine della Terza Missione piuttosto riduttiva: come se fosse in sostanza, perlomeno per le materie umanistiche, un’attività di conferenze. Si tratta in realtà di un panorama di iniziative estremamente ricco, articolato e variegato, di cui è difficile dare un’idea se non attraverso alcuni esempi. Fanno parte dei progetti di Terza Missione recentemente valorizzati con alcune pubblicazioni dall’Università di Milano, per esempio, la creazione di un poliambulatorio destinato alla popolazione infantile delle baraccopoli di Nairobi; la “clinica legale”, ovvero l’assistenza giuridica sul campo, prestata dagli studenti ai migranti all’interno del corso di laurea in Legge; la realizzazione del primo museo etrusco virtuale; il gioco da tavolo basato sull’Inferno di Dante, ricchissimo di informazioni e approfondimenti, che si può scaricare e stampare gratuitamente; l’orchestra sinfonica UNIMI; le attività con studenti e cittadini svolte nel contesto di scavi archeologici; i laboratori teatrali su Shakespeare tenuti nel carcere minorile Beccaria… e si potrebbe continuare a lungo.

La Terza Missione rischia di mettere a rischio didattica e ricerca?

In sostanza, comunque, le preoccupazioni sollevate in particolare da Claudio Marazzini sulla rivista il Mulino e riprese da Claudio Giunta sul Post sono così riassumibili: di fronte alle esigenze di didattica aumentate, anche a causa delle maggiori necessità degli studenti, che arriverebbero a immatricolarsi con una preparazione maggiormente eterogenea e un’esperienza culturale meno matura di un tempo; di fronte alle crescenti incombenze burocratiche che già appesantiscono enormemente il lavoro dei docenti, sottraendo loro tempo utile; di fronte alla già grande densità di attività di comunicazione della conoscenza portate a termine da istituzioni eterogenee con cui l’università è costretta a entrare in concorrenza; in un già difficile contesto interno ed esterno, insomma, dedicarsi a progetti di Terza Missione porterebbe al rischio di trascurare le due missioni fondamentali dell’università, ovvero la didattica e la ricerca. Questo sarebbe particolarmente vero per le materie umanistiche, campo di studio di entrambi i docenti.

In particolare, si punta poi il dito contro la necessità di sottoporsi a un ulteriore carico di lavoro burocratico per rendicontare le attività di Terza Missione svolte, operazione necessaria per ottenere la valutazione da parte dell’Anvur, che incide poi sui finanziamenti destinati all’università stessa. Per citare Marazzini: «…quando la terza missione diventa un obbligo da misurare e pesare a scopo di valutazione collettiva e individuale, per tutti i dipartimenti e magari per tutti i docenti. Si crea allora una burocratizzazione perniciosa che distoglie l’università e i suoi docenti dalle due prime missioni, che sono le uniche veramente importanti, anzi le uniche vere». Mentre, per citare Giunta, la Terza Missione «come attività volontaria (e saltuaria) era una sensata forma di restituzione al mondo extra-universitario. Come attività normata e premiata rischia di diventare lo sport preferito di chi non ha tanto a cuore né la prima né la seconda missione, e ama sentire il suono della propria voce, o vedere il proprio nome scritto sui manifesti».

È sempre utile che i problemi dell’università, istituzione fondamentale per la nostra società, siano portati alla luce e discussi, primo passo necessario per affrontarli e sperabilmente risolverli. Il peso del lavoro burocratico è sicuramente ampiamente denunciato dai docenti universitari: e del resto questo dibattito è stato ispirato, lo afferma lo stesso Marazzini, proprio dalla recente denuncia di Alessandro Barbero del peso schiacciante della burocrazia, che soffoca l’università. L’importanza dell’argomento (che in sostanza risponde a una domanda cruciale: che cosa deve fare l’Università?), merita però una riflessione più approfondita.

La Terza Missione è un percorso a due sensi

Un primo aspetto importante, che rischia di non ricevere l’importanza che merita nel dibattito, è che la Terza Missione non è un percorso a senso unico, ma a due sensi: dall’università alla società, ma anche l’inverso. Bisognerebbe sottolineare che l’università nel rapporto con l’esterno si arricchisce, e questo non vale solo per le facoltà scientifiche.

Ne abbiamo parlato con Marilisa D’Amico, docente di Diritto costituzionale e prorettrice alla Terza Missione all’Università statale di Milano e con Roberto Tiezzi, direttore dell’Area Innovazione della stessa università.

«Forse non bisognerebbe più usare il termine “missione”», suggerisce D’Amico. «Continuando a chiamarla Terza Missione generiamo infatti l’equivoco che si tratti di un processo a senso unico, che i professori siano, appunto, una sorta di “missionari” che escono dall’università per elargire le loro conoscenze: in questo senso la legge, che oggi parla di “valorizzazione delle conoscenze”, è più chiara. Bisogna infatti pensare alla Terza Missione come a un percorso a doppio senso, in cui l’università non solo trasmette a tutti (e non più solo ai suoi studenti) il suo sapere, con le attività che definiamo di public engagement, ma anche riceve dall’esterno, attraverso la collaborazione con aziende, enti e istituzioni, un importante impulso di metodo, che la aiuta ad affiancare alla ricerca teorica, ovviamente indispensabile, forme di ricerca applicata e concreta, proprio grazie al fatto di essere svolta in collaborazione con enti esterni. È un aspetto che nel mio campo, la giurisprudenza, stiamo sviluppando per esempio con il progetto Human Hall, che si occupa di ricerca applicata nel campo dei diritti umani».

Il concetto di Terza Missione come processo biunivoco è sottolineato anche da Roberto Tiezzi, che si occupa da anni delle molteplici attività di trasferimento tecnologico e di sostegno all’innovazione alla Statale: «È importante considerare che nelle attività di Terza Missione, oltre all’effetto di orientare le conoscenze e il nuovo sapere verso una fruizione e un uso utile per la società e per i suoi diversi settori, c’è una logica di scambio biunivoco: questo tipo di attività arricchisce e feconda le stesse funzioni primarie della didattica e della ricerca; lavorare con le aziende e sviluppare l’innovazione è un modo per stimolare nuova ricerca e arricchire le competenze e migliorare la formazione dei nostri giovani ricercatori. Allo stesso modo interagire con i diversi settori della società è un modo per individuare i bisogni e l’esigenza di profili professionali che siano in grado di rispondere alle sfide della modernità, e questo si riflette sull’orientamento della nostra offerta didattica, e significa presentare un’offerta più in linea con le esigenze della società e della nostra comunità. Il public engagement non è solo un trasferimento di conoscenza, ma anche una modalità di co-creazione della conoscenza attraverso il coinvolgimento dei cittadini: un tema centrale anche nella stessa concezione di citizen science, un principio riconosciuto a livello europeo, che stimola la partecipazione del cittadino nelle attività di ricerca. Più di vent’anni fa le aziende si rivolgevano all’università chiedendo in sostanza dei servizi, oggi ai nostri ricercatori è richiesto molto di più: di partecipare, di proporre innovazione».

Nel dibattito si è segnalato il rischio che le attività di Terza Missione portino via ai docenti tempo che potrebbe essere dedicato agli studenti: un argomento sicuramente da non trascurare, anche se si può ricordare che in molte attività di Terza Missione gli studenti sono coinvolti e anche in forme maggiormente innovative rispetto a quanto avviene nelle lezioni frontali.

Secondo Tiezzi, non c’è un vero rischio per cui la Terza Missione possa interferire con didattica e ricerca: «Sulla didattica i carichi sono rigorosamente codificati e monitorati, l’impegno didattico dei docenti rappresenta il presupposto fondamentale per l’accreditamento della sede universitaria stessa; i requisiti e i processi di monitoraggio della didattica sono stringenti e tra l’altro coinvolgono gli studenti. E anche per quanto riguarda la ricerca è una funzione ormai strutturale, finanziata a livello regionale, nazionale ed europeo e orientata dai grandi programmi di investimento: oltre all’impegno dei nostri ricercatori e docenti abbiamo una codifica abbastanza stringente dei carichi. In realtà è piuttosto il contrario, è proprio la Terza Missione che rischia di essere la funzione più nuova e residuale, in qualche modo sacrificabile». Del resto, che sia esplicitamente messa in discussione dimostra che non ovunque se ne riconosce l’importanza.

Per gli studenti è importante scegliere università dinamiche

Eppure gli studenti mostrano di apprezzarla e anzi di considerarla un criterio per la scelta dell’Università. Spiega infatti Tiezzi: «Per un ateneo, l’apertura verso l’esterno incide sulla reputazione, sul posizionamento rispetto alle grandi sfide in risposta alle forti esigenze sociali: per noi la Terza Missione è anche un modo per dimostrare che la Statale è un ambiente ricco non solo di sapere, ma anche di esperienze, di contaminazione; e questo per gli studenti è sempre di più uno dei fattori determinanti nella scelta di una università. Uno studente oggi sceglie le sedi che garantiscono maggiore dinamicità, possibilità di incontro e sviluppo di relazioni con la società e il mondo delle imprese, che permetta loro di fare anche esperienze non previste nei percorsi tradizionali».

Commenta ancora D’Amico: «Un sapere rinchiuso all’interno dell’università è un sapere asfittico, che non serve: per esempio nella mia esperienza personale di docente ho sempre lavorato molto intensamente anche all’esterno, sia entrando in politica a livello comunale, sia seguendo come avvocata cause legali strategiche, per esempio in difesa dei matrimoni tra persone dello stesso sesso; queste esperienze sono state criticate, ai tempi, da alcuni colleghi universitari, venivano considerate in qualche modo estranee alla ricerca scientifica, anche se in realtà hanno migliorato le mie stesse lezioni, perché tutto quello che imparavo lo trasmettevo agli studenti; e alla fine proprio in seguito alle mie battaglie sul matrimonio omosessuale sono stata invitata come visiting professor alla Columbia University di New York, dove le esperienze esterne al mondo accademico sono valutate moltissimo. Una università che non si apre è una università che muore».

Certamente la Terza Missione rappresenta lavoro in più per i docenti, anche sul fronte delle procedure necessarie per la valutazione, che sicuramente aggiungono un ulteriore carico burocratico a quello già pesante e crescente che grava sugli universitari.

Come sottolinea D’Amico, non si tratta però di un problema legato alla Terza Missione: «Che stiamo soffocando nella burocrazia è verissimo. Il carico burocratico però affligge tutti gli aspetti del lavoro universitario, sicuramente anche la necessità di rendicontare, generalmente, appesantisce tutto il lavoro universitario. E non è neanche un problema solo italiano. Sicuramente un maggiore sostegno amministrativo ai docenti per questa parte è necessario».

Però, come evidenzia Tiezzi, «il problema è più profondo del carico di lavoro necessario alla rendicontazione della Terza Missione. Il problema è l’approccio sistemico iperburocratizzato, che zavorra le attività universitarie e riguarda tutto: la Terza Missione come la didattica e la ricerca. Riguarda tutta la modalità cui deve conformarsi un’organizzazione pubblica come l’Università. Potremmo allora usare l’immagine di un vaso già stracolmo, in cui non sta più l’ultima goccia. Il problema però non è la goccia, ma che il vaso è stracolmo. Non mi convince l’idea di risolvere il problema sottraendo una funzione, come la Terza Missione: sarebbe meglio aggredire il problema stesso, andando a ragionare sull’aspetto organizzativo e lo snellimento dei processi in ottica più sistemica, piuttosto che escludere proprio le funzioni più nuove, che a mio avviso rendono più moderna un’università e generano valore per i suoi stakeholder».

Del resto, pur faticose, la rendicontazione e la valutazione sono strumenti necessari per valorizzare le attività di Terza Missione, che per molti anni sono state portate a termine dai docenti con impegno, energia e dispendio di tempo, senza che questo ricevesse alcun tipo di riconoscimento da parte dell’università. Anzi, dato che non incideva sul percorso di avanzamento accademico, per cui contano solo le pubblicazioni scientifiche, le attività di Terza Missione sono state in passato tollerate, se non a volte osteggiate apertamente.

Eppure, grandissimi docenti dell’Università di Milano hanno avuto molto a cuore l’attività di condivisione del sapere con il pubblico: dal fondatore stesso dell’Università, Luigi Mangiagalli, celebre per le sue seguitissime conferenze e le sue pubblicazioni divulgative, ad Antonio Banfi, che fondò la Casa della Cultura, a Valerio Onida, tra i più grandi costituzionalisti italiani, che di Marilisa D’Amico è stato il maestro: «Per Onida proprio la passione, il desiderio, la consapevolezza dell’importanza di trasmettere la propria conoscenza anche all’esterno dell’università, insieme all’attenzione verso gli studenti, erano i due aspetti più importanti in base ai quali ci valutava, ancora più che sulle capacità scientifiche: il diritto costituzionale non può certo rimanere confinato all’interno dell’università», ricorda la professoressa. «Sarebbe assurdo tornare indietro proprio adesso che la Terza Missione finalmente incide anche sui finanziamenti ordinari ricevuti dall’università: dovrebbe anzi essere uno stimolo in più», conclude.

E infatti, spiega Tiezzi, l’Università di Milano sta elaborando un sistema di incentivi tra i dipartimenti che preveda l’inclusione delle attività di Terza Missione tra i criteri considerati nella modalità di distribuzione delle risorse interne.

Il ruolo delle discipline umanistiche

Si è parlato in particolare della minore opportunità di dedicare alle discipline umanistiche progetti di Terza Missione. Ma oggi, in un mondo dove la multidisciplinarietà investe in misura sempre maggiore tutti i campi di studio – pensiamo per esempio solo a quanto avviene nel campo della archeologia o della papirologia – ha ancora senso parlare di differenza tra discipline umanistiche e scientifiche in rapporto alla Terza Missione?

Secondo Marilisa D’Amico, è proprio l’opposto: «Sono le discipline umanistiche quelle che, anche tradizionalmente, hanno il maggior potenziale di condivisione con il pubblico, basta pensare a tutta la letteratura, al cinema, al teatro… e non dimentichiamo il patrimonio archivistico dell’università, quello museale, gli scavi archeologici… sono aspetti importantissimi, di cui il mondo della cultura si nutre; nel campo giuridico, poi, rientrano le cliniche legali, con tutti i servizi di tipo giuridico svolti nel territorio, gli sportelli di consulenza… pensiamo poi alla filosofia e ai suoi collegamenti con l’intelligenza artificiale; e non dimentichiamo che le aziende sempre di più oggi vogliono lavorare con l’università anche su temi sociali, c’è un grande esigenza di ricerca applicata anche a tutto il campo sociale – pensiamo alle strategie aziendali per la Diversity , Equity and Inclusion o all’indice di sensibilità di genere – un campo in cui il diritto può diventare strumento non solo di inclusione, ma anche di innovazione».

Come spiega ancora Tiezzi: «Certo, non tutte le attività di Terza Missione sono realizzate da tutte le aree scientifico-disciplinari. Per le aree umanistiche può essere difficile produrre brevetti o sviluppare tecnologie? Questo però non significa che non facciano attività di Terza Missione: le fanno di altro tipo. Non per nulla il meccanismo di valutazione delle attività di Terza Missione, essendo rivolto ad attività di tipo molto differente, è di tipo qualitativo, benché supportato anche da dati quantitativi: le schede utilizzate dall’ANVUR sono ispirate a uno strumento nato nel Regno Unito (REF – Research Excellence Framework), pensato proprio per valutare attività di ricerca di tipo molto diverso».

Potremmo quindi affermare che il problema – ripetutamente denunciato – della scarsità delle risorse dedicate all’Università e alla ricerca nel nostro Paese dovrebbe essere affrontato aumentando le risorse e non diminuendo le attività di valorizzazione delle conoscenze? Secondo Tiezzi, c’è anche un ampio spazio di miglioramento organizzativo: «Concretamente, si potrebbe fare molto dal punto di vista della gestione, dello sviluppo di capacità e nel disegno di processi che sburocratizzino parte del lavoro che oggi è in carico sia alla parte amministrativa sia al corpo docente. Si potrebbe fare tanto, anche senza necessità di modificare le norme. Per esempio si potrebbe intervenire sui processi di arruolamento del personale di amministrazione e di ricerca, e anche sui processi di delega interni. Anche una mappatura e un esame critico della distribuzione delle risorse umane all’interno di un sistema così complesso sarebbe utile. Certo, nessuno ha la bacchetta magica: ma un’altra soluzione pratica potrebbe essere un maggior coinvolgimento dei giovani, soprattutto dei giovani ricercatori, che potrebbe alleggerire i carichi anche amministrativi legati alla gestione delle attività universitarie e portare energia ed entusiasmo nello svolgimento delle attività di Terza Missione. C’è poi il tema della scarsità delle risorse, certo, un problema peraltro endemico, che è oggettivo, soprattutto se ci rapportiamo ad altri paesi. Ma lavorare sulla gestione e sugli aspetti organizzativi potrebbe comunque aiutare».