Il 27 gennaio del 2017, il regista Sergei Losnitza presenziò alla proiezione, al cinema Beltrade di Milano, del suo documentario Austerlitz. Mutuava il titolo dal cognome del protagonista del romanzo omonimo di WG. Sebald, scrittore tedesco che non chiuse mai i suoi conti con la memoria (WG Sebald. Austerlitz. Adelphi 2006). Il film di Lonistza, nato in Bielorussia, laureato a Kiev in matematica applicata e diplomato all’Istituto di cinema russo di Mosca, mostrava una giornata tipo di visita al campo di concentramento di Sachsenhausen, scelto perché il più vicino a Berlino e perché costruito con l’obiettivo della soluzione finale. Con il sottofondo sonoro delle voci delle guide che spiegano le torture inflitte dalle SS e dalla Gestapo, la macchina da presa fissa, nascosta ad altezza d’uomo in punti chiave, riprendeva una sfilata estiva di turisti semisvestiti; c’era chi indossava una maglietta con la frase Just don’t care, chi si faceva un selfie, chi fotografava la fidanzata in posa davanti ai pali a cui i prigionieri venivano impiccati, chi mangiava un panino (alcune sequenze sono visibili qui).
Al di là dello sconforto per il comportamento umano, il regista si chiedeva se fosse giusto esibire al pubblico questi luoghi come fossero scavi archeologici. «Un campo di concentramento – sosteneva – non è Pompei e non è un museo: non solo questa vicenda è ancora troppo vicina a noi, ma le condizioni che l’hanno determinata sono ancora attuali». Ridurre l’orrore a tappa di un percorso turistico o a gita scolastica significa renderne l’impatto debole e vano e affrettare l’archiviazione di colpe inestinguibili.
Nello stesso anno, anche l’artista tedesco-israeliano Shahak Shapira espresse la sua indignazione per questa deriva nel progetto Yolocaust, che “correggeva” le foto scattate al Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa. Il memoriale, che sorge a Berlino su un’area di 19.000 mq, un tempo occupata dal palazzo e dalla proprietà del gerarca nazista Joseph Goebbels, è stato progettato dall’architetto Peter Eisenman come una distesa di quasi tremila blocchi di calcestruzzo, tutti con la stessa base, ma con diversa altezza, sui quali è possibile camminare. Poiché girava sui social una quantità di post di ragazzi e ragazze che fra i cubi di Eisenman giocavano, correvano, prendevano il sole e si esibivano in pose ammiccanti, Shapira “rubò” una dozzina delle foto particolarmente provocatorie e ne rielaborò digitalmente lo sfondo, facendolo diventare un’immagine dei campi di concentramento, con i vestiti accumulati, i cadaveri, i prigionieri. L’hashtag #YOLO (you only live once), che ricorreva nei post, suggerì la crasi Yolocaust. Anche se i 12 interessati fecero cancellare l’immagine che li riguardava (alcuni di loro scusandosi per la propria sconsideratezza), si era trattato, in effetti, di una gogna pubblica che ebbe risonanza nei media, da Haaretz alla BBC (in Italia La Stampa e il Messaggero) e il sito venne chiuso dopo una decina di giorni, ma con all’attivo due milioni e mezzo di visitatori. Ora vi si trovano solo poche righe che rievocano il progetto ma, poiché internet ha la memoria lunga, le foto sono ancora rinvenibili su altre pagine (per esempio qui).
Questi due esempi rivelano che la banalizzazione della memoria della Shoah è in atto, ormai, da una ventina d’anni; è quindi necessaria una riflessione sulla presa che la celebrazione del 27 gennaio può ancora avere sulle giovani generazioni.
Nel pensiero di chi scrive, la scuola (che raggiunge tutti gli strati sociali) avrebbe il potere di rendere significativa la ricorrenza, facendo comprendere a ragazzi e ragazze che ricordare il passato deve essere un insegnamento per emendare il futuro e una spinta a negare per sempre il consenso a chi è stato o sta con i carnefici. Lo strumento cardine della comprensione è, come sempre, la lettura. Alle medie inferiori viene proposta, di solito, quella del diario di Anna Frank, forse perché vi sono espressi sentimenti affini a quelli degli studenti ed è minore che in altra letteratura della Shoah il tasso di orrore, non essendo stato scritto dopo l’esperienza del campo di sterminio ma quando il lager era ancora una minaccia sconosciuta o nebulosa.
Varrebbe però la pena, in seguito, di esporre le menti ancora ricettive degli adolescenti a ciò che emerge da altri diari, compilati da loro coetanei in una realtà poco esplorata e più agghiacciante di quella dell’alloggio segreto: la segregazione in un ghetto. Restringendo la messa a fuoco sul ghetto di Łódź, il secondo più grande d’Europa dopo quello di Varsavia, vi sono stati scritti il diario di Abram Cytryn, morto a 17 anni (Racconti dal ghetto di Łódź. Marsilio, 2016) e quello di Rywka Lipszyc, morta a 16 anni (La memoria dei fiori. Garzanti, 2015), oltre al più noto diario di Dawid Sierakowiak, morto a 19 anni (Cinque quaderni dal ghetto di Łódź. Einaudi, 1997).
All’indomani dell’occupazione di Łódź (da loro rinominata Litzmannstadt), nel settembre 1939, i tedeschi decisero la creazione del ghetto, facendola precedere dalla distruzione delle tre sinagoghe monumentali della città e da una serie di misure che spogliarono gli ebrei dei loro beni e li obbligarono a farsi identificare dalla stella di Davide su un bracciale giallo. Il confinamento, come garantiva un rapporto a Berlino di Friedrich Übelhör, Brigadenführer della reggenza di Kalisz, era solo «un provvedimento di transizione», poiché l’obiettivo finale era «l’estirpazione fino all’ultimo di quei bubboni pestilenziali»: nel frattempo, una volta rinchiuse, le future vittime potevano fornire manodopera alle industrie necessarie alla Wehrmacht (per divise, calzature, carpenteria e materiale elettrico). Nucleo del ghetto erano i bassifondi di casupole con incerta fornitura elettrica e senza acqua corrente dove già abitavano le famiglie ebree operaie; l’estensione all’adiacente quartiere di Baluty, con case in pietra costruite intorno a cortili, garantiva luoghi di raccolta delle persone.
Il ghetto fu chiuso da una cinta di travi di legno e filo spinato sorvegliata da soldati e, dopo un opportuno pogrom “di convincimento” con centinaia di uccisioni, il 1º maggio 1940 vi furono definitivamente rinchiusi 160.320 ebrei. Il numero aumentò dopo la dispersione delle comunità che abitavano in paesi lontani dalle linee ferroviarie: i ghetti permanenti, come anche i campi di lavoro, dovevano, infatti, avere collegamenti ferroviari stabili per l’approvvigionamento alimentare, che era pagato dagli stessi ebrei ma gestito dalle SS (agli ebrei era vietato cuocere il pane) e, soprattutto dal 1942, per il trasferimento dei prigionieri.
Nel novembre del 1941 arrivarono nel ghetto dal confine austro-ungherese anche 5.000 rom (di cui quasi 2.700 bambini). Stipati in una zona priva di servizi igienici e di acqua corrente, in meno di due mesi morirono di tifo in 719. Per fermare l’epidemia i tedeschi decisero di liquidare tutti gli zingari a Chelmo, dove i prigionieri venivano subito gassati con monossido di carbonio in camion sigillati, i cosiddetti Gaswagen, già impiegati per le operazioni degli Einsatzgruppen.
Dal dicembre 1942 fu posto nel ghetto anche un campo per ragazzi polacchi non-ebrei tra gli 8 e i 16 anni, orfani, abbandonati o con genitori in prigione. Nello stesso campo furono poi internati Testimoni di Geova e prigionieri di guerra russi e italiani.
Tra i polacchi cui fu ordinato di lasciare i quartieri destinati al ghetto c’era Waclaw Szkudlarek, la cui casa venne abitata dalla famiglia dell’ebanista Majlech Sierakowiak. Quando i russi liberarono la città, Szkudlarek tornò nella sua casa e trovò su una stufa una pila di quaderni scritti: cinque di essi contenevano le annotazioni quotidiane di Dawid, che, nel 1939, aveva 15 anni. I quaderni mancanti erano probabilmente serviti ad alimentare il fuoco da chi era passato dalla casa nell’inverno del 1945. Se il diario ha avuto diffusione si deve alla tenacia di Lucjan Dobroszycki, uno storico sopravvissuto del ghetto di Lodz e di Konrad Turowski, un giornalista cristiano che negli anni Sessanta del secolo scorso lo salvò dai rigurgiti di antisemitismo del governo comunista polacco. La sua edizione italiana è stata curata da Alan Adelson, collaboratore del Jewish Heritage Project di New York, e da Frediano Sessi, studioso del sistema concentrazionario. I cinque quaderni originali sono oggi conservati in parte negli archivi di Yad Vashem e in parte nella collezione dell’United States Holocaust Memorial Museum.
Dawid Sierakowiak è un ragazzo sveglio (primo della scuola al ginnasio ebraico), che frequenta i campi di vacanza dei giovani sionisti, si professa marxista, studia l’inglese, il tedesco, il francese, l’ebraico e il latino. A casa parla polacco e yiddish. Il suo diario inizia il 28 giugno 1939 e si interrompe il 15 aprile 1943: l’8 agosto di quell’anno Dawid morì di tubercolosi, fame e spossatezza, una sindrome conosciuta come “malattia del ghetto”. Il ragazzo coglie lucidamente tutto quello che avviene nel suo universo confinato e lo annota: segue e commenta le notizie internazionali che arrivano da chi ascolta clandestinamente la radio, dà conto delle sue letture, dei suoi progressi scolastici (fintanto che una scuola è esistita) e dei lavori che trova per aiutare la famiglia, depreca i privilegi di Mordechai Chaim Rumkowski, figura abbietta e al tempo stesso tragica di volenteroso esecutore degli ordini tedeschi. I nazisti gli hanno delegato l’amministrazione del ghetto e, in cambio del funzionamento delle fabbriche e del mantenimento dell’ordine, riservano a lui e agli altri maggiorenti (i Prominentem di Primo Levi) condizioni di vita migliori, ma, cionondimeno, lo stesso destino finale degli altri.
Nel ghetto è attivo un centinaio tra laboratori e industrie, la cui produttività è la polizza assicurativa per la sopravvivenza di Chaim Rumkowski e degli altri membri dello Judenrat (il Consiglio ebraico). Nei primi mesi del 1942, su ordine delle autorità tedesche, Rumkowski seleziona per il «reinsediamento in altri campi» 70.000 soggetti privi di qualifica lavorativa; in settembre, quando i nazisti gli chiedono altre 15.000 persone non necessarie alla produzione, opta per il sacrificio dei bambini sotto i 10 anni, degli anziani e dei malati (tra cui la madre di Dawid, Sura), prelevati con l’aiuto della polizia ebraica nella cosiddetta Azione Gehsperre. La sua strategia è di salvare pochi consegnando molti. Va ricordata la diversa qualità morale del suo omologo nel ghetto di Varsavia, Adam Czerniakow che, due mesi prima, si era suicidato per aver fallito nel tentativo di salvare i bambini dell’orfanotrofio dalla deportazione a Treblinka; nessun popolo, tuttavia, deve essere fatto solo di eroi e di santi per meritare di non essere sterminato.
Gli ebrei dipendono interamente dalle autorità tedesche e dai responsabili del ghetto per cibo, medicine e tutti i rifornimenti essenziali: per chi sfugge alle deportazioni, il lento sicario è la fame e la negazione del cibo è l’arma. Il cibo è il pensiero costante di Dawid, che lui tiene a bada, finché le forze non lo lasciano, con lo studio e la lettura, sostegni della sua resistenza alla paura, al dolore per la madre deportata e alla malattia. Consapevole della sua sorte, nell’ultima nota del 15 aprile 1943 scrive:
In serata ho dovuto preparare il cibo per la cena, cosa che mi ha spossato del tutto. In politica non c’è assolutamente niente di nuovo. Ancora una volta, senza irrequietezza, mi sento prendere da una profonda malinconia. Per noi non c’è nessuna speranza di uscire da qui.
Il diario di Dawid è la registrazione quotidiana della progressiva distruzione della vita umana, preceduta dalla cancellazione dei suoi aspetti affettivi, creativi e intellettuali. La disumanizzazione, che prelude sempre all’annientamento, passa per soprusi e intimidazioni, scuole chiuse e requisite, poveri beni sottratti in perquisizioni estemporanee, sussistenza centellinata. Di questa inimmaginabile condizione di vita, la scarna prosa del diario di Dawid offre spiragli di cognizione:
Uno studente della nostra stessa classe è morto ieri di fame e sfinimento. A causa del suo aspetto orribile, gli è stato permesso di mangiare quanta zuppa voleva a scuola, ma non gli è servito a molto. È la terza vittima della classe (13 maggio 1941).
I giorni trascorrono uno dopo l’altro. Uno compera le razioni, consuma il poco cibo da cui sono costituite, muore di fame mentre le mangia e dopo questo continua ad aspettare ostinatamente, ininterrottamente, senza demordere, fino alla fine della maledetta dannata guerra… stiamo combattendo per sopravvivere fino alla liberazione, un obiettivo tanto inafferrabile quanto fantasmatico (1 settembre 1942).
Il ghetto di Litzmannstadt non arrivò alla fine della guerra: per via della sua produttività, sopravvisse fino all’agosto 1944, quando la rivolta del ghetto di Varsavia e l’avvicinarsi dei sovietici indussero i nazisti a deportare ad Auschwitz gli ultimi 72.000 residenti; tra quelli immediatamente gassati a Birkenau c’era Nadzia, la sorella di Dawid, e c’erano Chaim Rumkowski e la sua famiglia. Circa 500 uomini e donne furono inviati a Sachsenhausen-Oranienburg e a Ravensbrück.
Quando l’Armata Rossa giunse a Łódź, il 19 gennaio 1945, trovò vivi 900 ragazzi polacchi del campo per orfani di via Przemyslowa e 877 ebrei (tra cui 12 bambini): 700 erano stati scelti dalla Gettoverwaltung (l’amministrazione tedesca del ghetto) per ripulire dopo la deportazione e gli altri erano riusciti a nascondersi.
Del ghetto di Łódź, oltre alle testimonianze dei diari, esiste anche una cronaca redatta dal 12 gennaio 1941 al 30 luglio 1944 da più autori. Non era una scrittura clandestina, ma faceva parte degli archivi ufficiali tenuti dall’amministrazione ebraica; tuttavia, i cronisti sapevano che le note potevano essere esaminate in qualsiasi momento e, quindi, i riferimenti ai tedeschi erano molto cauti e solo alcuni di loro (Bernard Ostrowski, ingegnere, Jozef Zelkowicz, etnografo, e Oskar Singer, pubblicista) firmarono quello che scrissero.
Venerdì 2 luglio 1943. Appena oltre il limite esterno del ghetto, in via Urzednicza, presso la recinzione di filo spinato, è stato allestito un parco divertimenti, come l’anno scorso. L’attrazione principale, l’unica visibile, è una giostra sospesa. Ogni giorno i bambini del ghetto si recano in pellegrinaggio a questo angolo e guardano con desiderio le attività dall’altra parte della recinzione. Sono soprattutto bambini anche dall’altra parte, che si scatenano e salgono sulle piccole barche sospese della giostra. Un amplificatore radio trasmette musica fonografica. I bambini del ghetto non hanno mai visto una giostra e raramente hanno sentito musica. Ascoltano e scrutano un mondo curioso e alieno, dove i bambini vivono in una specie di terra che non c’è. Una giostra, quasi a portata di mano; solo il filo spinato li tiene lontani. I bambini sono bambini da entrambe le parti del filo spinato, eppure non sono gli stessi.
Inoltre, Henryk Ross e Mendel Grosman, fotografi ufficiali del Consiglio, scattarono di nascosto un gran numero di fotografie. Ross sopravvisse a Łódź con le ultime squadre di addetti alla ripulitura del ghetto, mentre Grosman, che nel 1944 aveva nascosto migliaia di negativi, fu deportato a Sachsenhausen e morì nel 1945 durante la marcia forzata che seguì l’evacuazione del campo. Dopo la guerra, il materiale fotografico fu recuperato e portato in Israele.
Sono morti nel ghetto (per fame, freddo, malattie, maltrattamenti ed esecuzioni sommarie) 45.000 ebrei, 719 rom e 136 bambini polacchi (come annotato dai registri dello Judenrat). Dei deportati, circa 78.000 ebrei e 4.300 rom sono stati uccisi a Chelmno e circa 65.000 ad Auschwitz. Gran parte dei numeri dello sterminio derivano dai registri di spedizione delle ferrovie tedesche; le modalità sono state riportate dagli imputati stessi dei processi istruiti nel dopoguerra e dai pochi prigionieri sopravvissuti. Tre di essi, Szymon Srebrnik, Mordechai Zurawski e Mordechai Podchlebnik, che fuggirono da Chelmno, testimoniarono al processo Eichmann del 1961.