I quasi 4000 partecipanti all’edizione 2025 della Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections (CROI), che quest’anno si svolge a San Francisco, sono tutti scossi. Ai più anziani sembra di essere tornati indietro nel tempo, riportati di peso a trent’anni fa quando i convegni sull’HIV erano centrati sulle questioni politiche e sociali. Alcuni di loro sono preoccupati di rivivere quegli anni bui tanto da commuoversi fino alle lacrime, come è successo a Rebecca Denison, attivista del gruppo Women Organized to Respond to Life Threatening Diseases, che è una sopravvissuta all’infezione contratta all’inizio degli anni Novanta e la cui relazione era tra quelle di apertura della conferenza. I più giovani, che hanno trascorso la loro vita lavorativa all’interno di una comunità in cui i valori della diversità, dell’equità e dell’inclusione sono stati fondamentali, come è stato ricordato nella seduta plenaria di lunedì 10 marzo, sono confusi e spaventati.
Cosa accadrà? Dopo anni di relativo ottimismo, l’uragano Trump potrebbe davvero cambiare le cose per l’infezione da HIV, anzi le sta già cambiando. Del resto, gli organizzatori lo hanno messo per iscritto in modo chiaro nella lettera di benvenuto: «Quest’anno il meeting si svolge in un clima di tremenda apprensione e incertezza, a causa delle recenti azioni del governo degli Stati Uniti». E per sottolineare l’enormità del problema accolgono i partecipanti al momento dell’iscrizione distribuendo due spillette che chiedono di appuntarsi al petto. C’è scritto: «Io sostengo la scienza» e «Io sostengo i nostri lavoratori federali».
Già, perché dopo i licenziamenti in massa decisi a gennaio dal presidente appena eletto, e solo parzialmente congelati dopo qualche giorno, sono arrivate le restrizioni agli spostamenti imposte ai lavoratori del governo federale che hanno impedito a moltissime persone di partecipare a questa conferenza. Si tratta di medici, ricercatori, funzionari di sanità pubblica di istituzioni importanti come i National Institutes of Health (NIH) o i Centers for Disease Control (CDC), da molti anni in prima fila nella lotta all’AIDS e a molte altre malattie. Da un giorno all’altro il governo ha ordinato loro di bloccare tutto a tempo indefinito: comunicazioni, viaggi, meeting. Molti di loro dovevano essere qui come relatori, ma non sono potuti venire.
È la prima volta che accade una cosa del genere dal 1993, anno della prima edizione della conferenza. All’ingresso della struttura che ospita il CROI campeggia anche un grande schermo su cui si alternano medici e ricercatori da tutto il mondo, da Anthony Fauci a Francoise Barré Sinousi, premio Nobel per aver isolato HIV, e tutti ripetono la stessa cosa: se si tagliano i fondi per la ricerca e il trattamento dell’HIV sarà un disastro, moriranno moltissime persone.
Lunedì pomeriggio, alla fine delle sessioni della conferenza, si è svolta una manifestazione con la parola d’ordine Save our science, salviamo la nostra scienza. Lo scopo: sostenere i programmi di ricerca sull’HIV «minacciati dal congelamento dei fondi federali e dai tagli dell’amministrazione Trump». Tagli alla ricerca ma che si ripercuotono sui trattamenti e le cure. La manifestazione è stata organizzata da San Francisco AIDS Foundation, HIV Advocacy Network insieme agli scienziati che partecipano al CROI 2025 e a tanti attivisti. Sul palco allestito nello Yerba Buena Park si sono avvicendati medici, ricercatori, attivisti, persone con infezione da HIV. Tanti i cartelli di protesta con slogan che ripetono anche quelli dell’inizio degli anni Novanta, come il famoso Silence = Death.
Momenti della manifestazione di lunedì. Crediti: Brooke Anderson
La preoccupazione è duplice: da un lato i tagli ai fondi federali per la ricerca biomedica operati dall’amministrazione Trump saranno un ostacolo per la formazione di nuovi medici e ricercatori e non li metteranno in grado di fronteggiare vecchie e nuove sfide. Se non si fosse investito nella ricerca, per esempio, non avremmo avuto i farmaci antiretrovirali che alla fine degli anni Novanta hanno cambiato radicalmente l’aspettativa di vita delle persone con HIV. Inoltre, come ha ricordato dal palco della manifestazione, Steven Deeks dell’Università della California a San Francisco, l’investimento nella ricerca sull’HIV è stato un motore di avanzamento per molti altri campi della ricerca biomedica, con un ritorno importante anche sul fronte della cura e della prevenzione di molte malattie.
Crediti: Brooke Anderson
D’altro lato, il congelamento di agenzie come USAID (United States Agency for International Development) e programmi come PEPFAR (President’s Emergency Plan for AIDS Relief), e PMI (President’s Malaria Initiative) crea una situazione davvero preoccupante per il trattamento e la cura. USAID fornisce assistenza allo sviluppo economico e assistenza umanitaria in molti Paesi. Il programma PEPFAR è stato annunciato nel 2003 dall’allora presidente George Bush. Da allora è stato cruciale per la risposta all’epidemia da HIV ma anche per il rafforzamento dei sistemi sanitari di oltre 50 paesi. Il PMI è nato nel 2005 per il controllo e l’eliminazione della malaria ed è presente in oltre 25 paesi in Africa e Asia.
Alla fine di gennaio 2025 una direttiva del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha bloccato per 90 giorni tutti i programmi di aiuto ad altri paesi. Quello che riguardava PEPFAR è stato poi parzialmente revocato, ma solo per la prevenzione della trasmissione madre-figlio che è una parte del lavoro del programma. Inoltre, sottolineano i relatori alla conferenza, i programmi PEPFAR sono per oltre due terzi implementati attaverso USAID, la cui attività al momento è totalmente congelata. In 21 anni i fondi PEPFAR hanno permesso il trattamento con antiretrovirali di oltre 20 milioni di persone con infezione da HIV, inclusi 566.000 bambini, raggiunto 2,3 milioni di giovani donne con i servizi di prevenzione dall’infezione e dato aiuto a 6,6 milioni di orfani da AIDS. Si calcola che PEPFAR abbia salvato in questi anni 26 milioni di vite e prevenuto l’infezione di 7,8 milioni di bambini. Nei paesi in cui il programma è attivo, le nuove infezioni da HIV si sono dimezzate dal 2010 a oggi.
Cosa succede se PEPFAR si ferma? Al convegno è stata presentata una stima impressionante: dal momento del blocco all’una di pomeriggio del 9 marzo le morti già verificatesi sarebbero 19.257 tra gli adulti e 2049 tra i bambini. E questi numeri aumentano rispettivamente di una unità ogni 3 minuti e ogni 31 minuti. In un articolo pubblicato il 25 febbraio sul Journal of the International AIDS Society si calcola che tre mesi di stop provocheranno un eccesso di morti per HIV di 109.552 persone in Africa.
Un punto cruciale trattato dai relatori riguarda la PrEP, ovvero la profilassi pre-esposizione dell’infezione da HIV realizzata con farmaci antiretrovirali. Quest’intervento aveva avuto un’espansione importante negli ultimi anni soprattutto in Africa con il risultato di contribuire alla drastica riduzione delle nuove infezioni. Oltre il 90% dei programmi riguardanti la PrEP a livello mondiale è stato realizzato con i fondi PEPFAR. Ora, come ha notato Chris Beyer del Duke Global Health Institute, l’intervento viene mantenuto solo per le donne in gravidanza e che allattano, mentre vengono annullati i fondi per tutte le altre persone, sia quelle che dovrebbero cominciare il trattamento, sia quelle che già sono in trattamento. Questo vuol dire che la profilassi viene sospesa a oltre due milioni di persone.
La scure di Trump si abbatte anche sui contenuti dei sistemi informativi. Negli ultimi anni era emerso il concetto di key population, popolazioni chiave che sono più colpite HIV e che è essenziale coinvolgere nell’attività di prevenzione per porre fine all’epidemia. Tra le key population troviamo per esempio le persone che usano sostanze stupefacenti, gli uomini che fanno sesso con uomini, i lavoratori del sesso, le persone transgender, i carcerati. Le agenzie federali americane hanno ricevuto dall’amministrazione Trump il divieto di utilizzare questo concetto nelle modellizzazioni di sviluppo e controllo dell’epidemia ma anche di raccogliere dati epidemiologici disaggregati secondo questo principio.
L’ottimismo che aveva fatto pensare all’UNAIDS, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa di HIV, di poter lanciare un piano per porre fine all’infezione da HIV entro il 2050 si è sgonfiato lasciando il posto a una domanda che qui, a San Francisco, non è stata affrontata ma che forse dovrà esserlo nei prossimi mesi: come fare senza gli Usa?