Secondo il World Migration Report 2024 dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, pubblicato nel maggio dello scorso anno, il numero stimato di migranti internazionali è salito a 304 milioni, dei quali circa 117,3 costretti ad allontanarsi dalla terra d’origine per motivi di guerra, violenza, persecuzioni e violazioni dei diritti internazionali. Di questi 37,6 milioni sono rifugiati e 5,8 richiedenti asilo, ancora in attesa di valutazione secondo la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato.
Sebbene sia innegabile che chiunque affronti un processo migratorio – per motivi economici, lavorativi, climatici – sia sottoposto a fattori di stress legati all’incertezza, alla discriminazione e alla difficoltà di integrazione sociale, richiedenti asilo e rifugiati rappresentano la categoria senza dubbio più vulnerabile e predisposta a sviluppare disagi psicologici importanti. La fase migratoria vera e propria è segnata da difficoltà legate alle condizioni stesse del viaggio, alla sua durata e alle modalità con cui viene affrontato, spesso aggravate dalla mancanza dei beni umani primari e dall’esposizione, diretta o indiretta, ad abusi e violenze. L’arrivo nel paese ospitante rappresenta un ulteriore carico di incertezze e ostacoli, esacerbati dalla barriera linguistica e culturale, dall’alienazione e dai pregiudizi che complicano inevitabilmente il processo di inserimento nella società. A tutto questo si sommano i traumi pregressi legati alle persecuzioni subite nel paese d’origine che, secondo le stime, riguardano l’80% dei richiedenti asilo. Non sorprende quindi che studi condotti nel 2019 abbiano riportato un rischio maggiore di sviluppare schizofrenia e relativi disturbi psicotici nei rifugiati rispetto ai migranti non rifugiati, evidenziando come il fenomeno migratorio incida in misura ancora maggiore su una salute mentale già compromessa.
Un invito alla riflessione su questi aspetti è stato presentato da un gruppo di lavoro del Tavolo Asilo e Immigrazione, che il 20 febbraio di quest’anno ha pubblicato un report sul Protocollo Italia – Albania (legge n. 14/2024) relativo alla gestione dei flussi migratori delle persone richiedenti asilo non vulnerabili. Questo accordo si inserisce in un quadro più ampio di esternalizzazione delle frontiere che da anni vede cooperare l’Unione europea e Paesi terzi. L’esistenza di strutture in territorio albanese gestite completamente dall’Italia fa sì che l’Albania diventi una sorta di estensione della frontiera italiana. Il report ha posto l’attenzione proprio sul rispetto dei diritti fondamentali nel suddetto protocollo, a una prima analisi apparsi calpestati da modalità operative approssimative e sistemi di garanzie opachi, privi di una reale verifica – se non superficiale – delle vulnerabilità psicologiche delle persone.
Anche attraverso questa ricostruzione del TAI emerge che l’impatto delle procedure sulla vita dei migranti coinvolti nelle tre operazioni in Albania sia stato pressoché sottovalutato: la rapidità con cui sono state analizzate le fragilità e l’esposizione sommaria della procedura non ha consentito ai migranti di comprendere a pieno i loro diritti, gettando le basi per il rischio futuro di normalizzare metodiche approssimative e frettolose. Il pre-screening, volto all’identificazione e alla valutazione delle vulnerabilità, è avvenuto a bordo delle motovedette e non in un luogo percepibile come sicuro, prolungando ulteriormente i giorni di navigazione e ritardando di conseguenza l’accesso ai servizi essenziali. Le modalità vengono descritte come rapide e superficiali, tant’è che il 10% delle persone giudicate non vulnerabili in questa fase è stata poi ritenuta tale nello screening successivo in territorio albanese, costringendole a sottoporsi a un ulteriore trasferimento verso l’Italia, nonostante l’indiscutibile fragilità. Sono emerse criticità anche in merito allo screening sanitario, realizzato a bordo delle navi militari con modalità inidonee o in sale ambulatoriali prive di attrezzature per accertamenti specialistici. Durante i colloqui sono state raccolte testimonianze riguardo l’operazione di novembre, nel corso della quale fu identificato un caso di scabbia a bordo della nave hub: questo non fu prontamente isolato né soccorso con farmaci specifici o servizi igienici adeguati, dando prova della minimizzazione e sottovalutazione degli aspetti di salute.
Lo stesso trasferimento forzato e la detenzione sistematica in centri dall’impianto simile a prigioni – il cui peso psicologico è ampiamente dimostrato- potrebbero essere con il tempo pericolosamente legittimati, conducendo al disimpegno rispetto all’obbligo internazionale di garanzia del diritto all’asilo in nome di accordi politici e di sicurezza dei confini.
Un alloggio adeguato e che possa essere percepito come sicuro è un diritto inalienabile delle persone, oltre a rappresentare una prerogativa fondamentale per un benessere fisico e psicologico completo. La letteratura conferma come l’alloggio sia strettamente connesso alla salute mentale dei suoi abitanti, identificando i centri di detenzione (in Italia, CPR) come i più dannosi per il benessere psicologico, correlati ai più alti livelli di autolesionismo. Le criticità dei centri di permanenza in merito ad accoglienza, sicurezza e condizioni igieniche incidono negativamente sullo stato psicologico già provato di migranti e richiedenti asilo. Scarsa privacy, spazi chiusi e sovraffollati simili a carceri provocano un reale deterioramento della salute, specialmente mentale. Vivere in condizioni di precarietà e limitazioni della libertà acutizza lo sviluppo di disturbi ansiosi e depressivi, che peggiorano con il protrarsi della detenzione e con l’assenza di un supporto psicologico e sanitario.
Per questo motivo l’ufficio regionale europeo dell’Oms ha pubblicato nel 2022 un documento in cui ha denunciato i rischi per la salute delle persone migranti all’interno dei CPR e delle altre strutture detentive, sottolineando come queste dovrebbero essere misure eccezionali, da applicare come ultima risorsa, preferendo alternative più rispettose dei diritti umani volte a garantire ai migranti la possibilità di affrontare le procedure burocratiche senza essere privati della propria libertà e autonomia.
Tra le proposte dell’Oms rientra la formazione del personale sanitario, molto spesso non adeguatamente preparato in ambito di medicina delle migrazioni. Ha il medesimo obiettivo il progetto Eu-MiCare, co-finanziato dal Programma Erasmus+ dell’UE, volto a sviluppare un programma di formazione completo per professionisti della salute mentale e altri operatori sanitari, al fine di migliorare il supporto offerto a migranti e rifugiati. Il personale sanitario deve essere innanzitutto capace di riconoscere i segnali di disagio mentale, per poi offrire un adeguato accompagnamento verso le nuove sfide che i migranti sono chiamati ad affrontare. In questa visione, appare chiaro che sia fondamentale assicurare supporto e vicinanza: l’alienazione, l’isolamento e il senso di non appartenenza alla nuova comunità sono causa di sofferenza psicologica, esacerbata dalla barriera linguistica e culturale. La presenza di professionisti in grado di fungere da ponte con la società rappresenta un elemento essenziale.
La salute mentale non può più essere considerato un aspetto secondario e trascurabile nelle politiche migratorie. Garantire ai migranti e ai rifugiati un accesso ai servizi di salute mentale, accompagnati da professionisti formati e da sistemi di accoglienza realmente inclusivi, non rappresenta solo una necessità ma anche un dovere etico e sociale.