Pubblicato il 15/04/2025Tempo di lettura: 4 mins

Con questa breve lettera aperta desideriamo condividere con la comunità scientifica le nostre profonde perplessità riguardo al nuovo Contratto di ricerca (CDR), attualmente in fase di applicazione nel nostro Paese.

Pur condividendo l’obiettivo, da tutti auspicato, di rafforzare le tutele e il riconoscimento del lavoro svolto dai giovani ricercatori e ricercatrici italiani, riteniamo che le condizioni strutturali e finanziarie del sistema della ricerca in Italia renderanno nei fatti il CDR difficilmente sostenibile e potenzialmente controproducente. In particolare, temiamo che possa comportare un peggioramento delle condizioni contrattuali per molti ricercatori post-doc, con effetti negativi sull’intero ecosistema della ricerca scientifica nazionale.

Riportiamo di seguito alcune riflessioni che ci spingono a ritenere che, allo stato attuale, il CDR rappresenti più un ostacolo che un’opportunità per il futuro della ricerca italiana.

  1. Il passaggio dagli assegni/borse di ricerca (esenti da IRPEF e IRAP) ai CDR comporta un significativo aumento del costo per i datori di lavoro. A conti fatti e a parità di budget, il netto percepito dai ricercatori si riduce sensibilmente rispetto a quanto prevedevano gli assegni. Ci duole sottolineare cha a causa dell’aumento dei costi, alcuni atenei stanno estendendo l’uso di borse “per giovani promettenti”, prive di tutele fondamentali come maternità, malattia o contributi previdenziali, aggravando la precarietà del lavoro scientifico. Non è paradossale che una riforma nata per migliorare le condizioni dei ricercatori finisca invece per peggiorarle per tutti? Il costo del CDR è circa doppio rispetto a un assegno di ricerca. A fronte di finanziamenti che non sono aumentati in modo proporzionale, ciò comporterà inevitabilmente una drastica riduzione del numero di posizioni disponibili, con effetti immediati sulla capacità produttiva dei laboratori e sull’intera filiera della ricerca. Prevediamo che tristemente la nuova normativa aumenterà la platea di ricercatori junior e senior che cercheranno posizioni all’estero. Può davvero esserci crescita se si taglia alla base il numero dei giovani ricercatori?
  2. La durata minima di due anni dei CDR ne rende impossibile l’utilizzo con molti strumenti di finanziamento di durata annuale o flessibile, come numerosi “seed grant” e “pilot grant” erogati da fondazioni quali AIRC e Telethon. Inoltre, la struttura discontinua, irregolare e imprevedibile dei finanziamenti pubblici (PRIN, FIS) rende di fatto difficile e rischioso l’impiego di contratti a lungo termine come il CDR. In assenza di forme contrattuali più flessibili, come sarà possibile utilizzare queste forme di finanziamento senza compromettere la continuità della ricerca?
  3. Poiché la normativa sui CDR si applica anche ai fondi provenienti da enti del terzo settore (ETS), una quota significativa delle risorse donate da cittadini, associazioni e pazienti – che oggi rappresentano circa un terzo dei fondi nelle life sciences – verrebbe indirettamente destinata a imposte (IRAP, IRPEF), con una drastica riduzione dell’efficacia delle donazioni. Di fatto, questo rappresenterebbe una forma di tassazione occulta della ricerca finanziata da privati. Può dirsi equo un sistema che penalizza enti del terzo settore e donazioni private?
  4. Il CDR non prevede una distinzione tra profili junior e senior, mettendo i giovani dottorandi appena formati in diretta competizione con colleghi molto più esperti. Questa mancanza di progressività rischia di escludere i profili più giovani dalle opportunità di ricerca, favorendo l’emigrazione dei talenti all’estero e interrompendo il naturale processo di formazione della nuova generazione scientifica. Come si prevede che le commissioni di concorso possano favorire l’accesso di carriera ai più meritevoli se l’età li svantaggia?

Alla luce di queste criticità, riteniamo che il CDR, così come concepito, rischi di compromettere seriamente la capacità del sistema italiano di sostenere, formare e trattenere giovani ricercatori.

Auspichiamo quindi che si apra un confronto costruttivo con il Ministero, per valutare soluzioni alternative, come un sistema di borse per la ricerca con profili junior e senior – sul modello del DDL 1240 – che garantiscano tutele adeguate (malattia, maternità, previdenza), permettano un utilizzo più sostenibile delle risorse pubbliche e private, e favoriscano un accesso più equo e funzionale alla carriera scientifica.

In gioco c’è il futuro della ricerca italiana e delle sue giovani menti. Un sistema che diventa meno inclusivo, meno flessibile e meno competitivo rischia di allontanare le nuove generazioni dalla scienza e di indebolire irrimediabilmente la capacità del nostro Paese di essere parte attiva nel panorama della ricerca internazionale.

Debito comune europeo?

Pubblicato il 14/04/2025

Serve fare debito comune europeo. Il dibattito è antico ed è tornato alla ribalta prima col Covid e ora con il riarmo. Le tesi a favore dovrebbero mirare soprattutto su tre punti: 1) il debito comune va reso strutturale, 2) va usato per fare investimenti, 3) gli investimenti devono servire ad accrescere il benessere diffuso. Cioè, sostanzialmente, fare debito comune europeo serve per finanziare welfare, ricerca scientifica e transizione ecologica.