Pubblicato il 12/03/2025Tempo di lettura: 4 mins
Tre colpi di genio e una pessima idea è il titolo dell’ultimo libro di Silvia Bencivelli, e ne parleremo con l’autrice domani alle 17. Intanto, per farsi un’idea di che cosa si tratta, ecco una fulminea ricostruzione dell’epidemia di colera che colpisce l’isola di Mauritius nel 1854.
Come aveva già fatto in precedenza, Brown-Séquard si butta nel dramma con inconsueta generosità e irragionevole entusiasmo. Port Louis si svuota, i negozi si chiudono, in migliaia si ammalano gravemente, i morti superano presto il centinaio, e alla fine si conteranno circa 170 decessi in un’isola di qualche decina di migliaia di abitanti. Lui di punto in bianco apre un ambulatorio, forse un vero e proprio ospedale, in collaborazione con un medico scozzese: in questo ospedale verrà trattato circa il 20 per cento delle persone contagiate in tutta l’isola, soprattutto poveri che nessun medico cura perché incapaci di pagare.
Ma Brown-Séquard e il collega scozzese non sono d’accordo sulle procedure: per lo scozzese, il trattamento del colera prevede salassi e docce fredde. Per Brown-Séquard, che lo ha imparato in Francia dal suo maestro François Magendie, la terapia è oppiacei e, in caso di sovradosaggio, caffè per compensare. E riposo assoluto. Noi oggi sappiamo che il metodo scozzese è sicuramente controproducente, mentre quello francese piuttosto inutile, con qualche aspetto di pericolosità. Ma siamo nel 1854 e per i due la questione è un vero dibattito scientifico sul quale hanno diverse frizioni. Intanto sull’isola cristiani, musulmani e induisti organizzano processioni colorate, ciascuno a modo proprio, per invocare santi e dèi e chiedere loro la cessazione delle sofferenze. Nemmeno questo funziona.
Un giorno, in una stanza dell’ospedale, una suora trova Brown- Séquard riverso sul pavimento in stato di incoscienza. È un momento drammatico, di cui non si sarà mai in grado di ricostruire la dinamica. Si scopre che il coma è dovuto all’ingestione di una grande quantità di oppio. Qualcuno pensa a un tentato suicidio, ma la cosa più probabile è che sia stato un autoesperimento incauto seguito da un tentativo di automedicazione per la fondata paura di essersi contagiato (trovo scritto che potrebbe aver ingerito il vomito di un paziente coleroso).
Comunque Brown-Séquard supera anche questa: grazie a poderose dosi di caffè per neutralizzare gli oppiacei, e a tutto il campionario di schiaffi con cui all’epoca si poteva curare una iniziale overdose, sopravvive. Sopravvive anche al colera. Dopodiché continua come prima: tiene lezioni e fa visite, e a Mauritius, come per la poesia, è un’autorità.
In una lettera, Ellen racconta ai suoi familiari di essere orgogliosa di lui e della gratitudine che riceve, e di aver visto coi suoi occhi persone fermarlo per strada e implorargli una visita. Intanto Brown-Séquard, oltre alle visite, fa esperimenti strani coi polli del pollaio che era di suo nonno, trapiantando sulle galline code di topo, creste di gallo e pinne di pesce.
Nello stesso periodo entra a far parte di una commissione speciale che dovrebbe scoprire la causa del colera. Non ci riesce: sarà appunto Robert Koch a identificare il vibrione, trent’anni più tardi. O meglio: sarà Koch a diventare famoso per questo, ma la verità oggi acclarata è che il vibrione colerico era stato identificato in quello stesso 1854 da un certo Filippo Pacini, medico di Pistoia.
Comunque, nonostante il gran daffare, nonostante sia celebrato come il coraggioso e generoso medico che ha salvato l’isola dal colera, premiato con una medaglia d’oro per il suo contributo alla lotta all’epidemia (la mortalità tra i suoi pazienti è stata del 28 per cento, contro il 71 per cento osservato nel resto dell’isola), Brown-Séquard ha un problema: si annoia. La vita ai tropici è lenta, rilassata, anche troppo, non ci sono grandi stimoli culturali, non si possono coltivare ambizioni. Così riprende armi e bagagli (e moglie) e torna negli Stati Uniti. La partenza da Mauritius questa volta viene celebrata in pompa magna, con orazioni pubbliche da parte delle autorità locali, medaglie e grandi e preziosi souvenir dell’isola da portare nella madrepatria francese. Ellen scrive: «Se il Dr. [così nel testo] fosse stato Salomone e io la regina di Saba, non avremmo ricevuto più attenzioni».
L’arrivo negli Stati Uniti, invece, non è affatto trionfale.
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