All’Università statale di Milano si lavora da più di cinque anni a un nuovo sistema utile a supportare la produzione di mangime più sostenibile per i pesci di allevamento. È un metodo che consente di ridurre sia il tempo e le energie necessari a sperimentare gli effetti dell’introduzione di nuovi mangimi in acquacultura sia la quantità di animali necessari alle sperimentazioni.
Ne abbiamo parlato con Fulvio Gandolfi, docente di Anatomia e Fisiologia Veterinaria all’Università degli Studi di Milano, coordinatore del progetto Fish-AI, guidato dalla stessa Università di Milano, che si è appena concluso, alla fine del 2024, dopo cinque anni, ma si apre ora a nuovi sviluppi e applicazioni concrete. È stato realizzato grazie a un finanziamento europeo European Innovation Council (EIC), un tipo di finanziamento finalizzato al trasferimento tecnologico, ovvero a sostenere progetti di ricerca scientifica caratterizzati dalla possibilità di avere applicazioni pratiche. 

«La nostra idea – spiega Gandolfi, del Dipartimento DISAA dell’Università di Milano, – è stata quella di mettere a frutto la nostra lunga esperienza nel campo delle cellule staminali, dei meccanismi di differenziamento e della creazione di modelli in vitro, per realizzare un intestino artificiale di pesce, più precisamente di trota, che possa essere utilizzato per testare nuovi tipi di mangime destinati all’acquacoltura. Semplificando, l’interno dell’intestino in natura è rivestito di una mucosa, composta da cellule che assorbono i nutrienti e li trasmettono al sangue: abbiamo voluto replicare questa struttura in laboratorio, attraverso cellule intestinali di trota coltivate in vitro. In questo modo si possono testare più agevolmente alimenti innovativi da destinare all’acquacultura, rendendo più veloce la procedura e riducendo la necessità di test in vivo sugli animali».

Mangimi per pesce: perché renderli più sostenibili è urgente

Perché si è scelto proprio la trota? Perché è di per sé il pesce più allevato in Italia, ma non solo: essendo un salmonide è anche un ottimo modello per studiare il salmone, che è una delle specie con un impatto economico globale maggiore. Ma è interessante anche capire perché c’è un interesse specifico per dedicare ricerche ai mangimi destinati all’acquacultura.
Spiega Gandolfi: «Intanto perché l’acquacultura è un settore molto tecnologicamente avanzato e innovativo, e questo ci ha consentito di creare un gruppo di lavoro dove fossero presenti tutte le competenze necessarie. Ma soprattutto, perché nell’acquacultura c’è un forte interesse volto alla ricerca di mangimi più sostenibili, dovuto alle caratteristiche specifiche del settore: i pesci di allevamento più pregiati – come cernie, orate, salmoni, trote – sono infatti carnivori; dunque i mangimi per queste specie contengono una notevole quantità di pesce pescato. Con la crescita costante dell’acquacoltura, necessaria per soddisfare il continuo aumento globale della domanda di pesce dovuto sia al cambiamento di abitudini alimentari sia all’aumento della popolazione, questo processo già abbastanza paradossale è diventato insostenibile per l’ambiente marino».

Ecco perché tutte le grandi ditte che producono mangime per l’acquacultura oggi sono alla ricerca di componenti proteiche alternative, che possono essere di origine vegetale, per esempio la soia, o derivate da scarti della macellazione, come i sottoprodotti della lavorazione del pollame, o ancora ottenute da alghe o insetti e altro ancora. Tutti questi nuovi possibili ingredienti devono essere testati in vivo, alla ricerca del miglior rapporto tra qualità e costo: i test in vivo, che restano in una certa misura indispensabili perché è impossibile riprodurre esattamente la complessità del funzionamento dell’intestino in vitro, permettono di valutare i risultati dei mangimi dopo un certo lasso di tempo, ma hanno il limite di non consentire di monitorare esattamente giorno dopo giorno in che modo l’organismo del pesce reagisce a un determinato componente. La sperimentazione in vitro consentita dal sistema creato da Fish-AI può svolgere questa funzione, monitorando in modo molto preciso la reazione delle cellule intestinali di pesce a diversi componenti. Questa soluzione è in grado sia in parte di sostituire sia comunque sempre supportare la sperimentazione di nuovi mangimi in vivo: un primo vantaggio è che appunto sostituisce il modello animale, e dunque è un sistema più economico e più rapido. Può essere utile in particolare a fare uno screening delle varie possibilità di ingrediente alternativo, testando diverse opzioni, differenti combinazioni, varie dosi, in termini di sicurezza, valore nutrizionale e benessere animale. In questo modo si possono poi testare in vivo solo quelle più promettenti.     

Ma per questo intestino artificiale si può quindi parlare di un organoide? Spiega ancora Gandolfi: «Non propriamente (nonostante si debba anche ricordare che la definizione di organoide non è a oggi precisissima), perché non si tratta di un prodotto tridimensionale: un organoide tridimensionale relativo all’intestino avrebbe infatti il lume all’interno (come avviene per l’intestino in natura), mentre noi abbiamo bisogno di un sistema di intestino artificiale che sia caratterizzato dal lume, ovvero la parte interna dell’intestino, rivolto verso l’esterno, proprio per consentire di mettere più facilmente a contatto delle cellule intestinali alimenti e altre sostanze, per testarne gli effetti; la parte apicale della nostra struttura mima quanto avviene nel lume dell’intestino, mentre la parte basale mima quello che avviene quando l’alimento passa nel sangue. Il nostro progetto è stato sviluppato intorno a questo concetto».

Ovviamente il progetto ha dovuto superare molte difficoltà. Racconta Gandolfi: «La prima, per quanto riguarda l’acquacultura, era che, quando abbiamo incominciato a lavorare al progetto, esisteva solo una linea cellulare dell’intestino di trota. Abbiamo quindi isolato altre linee cellulari per ottenere una rappresentazione completa di tutte le porzioni dell’intestino, che hanno funzioni diverse: quella anteriore è più legata all’assorbimento, quella posteriore all’azione immunitaria. Le cellule sono coltivate in laboratorio, dove sono in grado di crescere e dividersi indefinitamente, senza differenziarsi. Quando devono essere utilizzate, le cellule vengono inserite in un contenitore apposito, in pratica una sorta di mastellino, che fornisce gli stimoli chimico-fisici per far loro riacquistare le loro caratteristiche specifiche. A questo punto, si introduce l’ingrediente che si vuole testare e si analizzano le reazioni rispetto sia all’assorbimento sia al successivo passaggio nel circolo sanguigno».

Nel progetto sono stati sviluppati due prototipi di intestino artificiale: in entrambi i casi abbiamo un compartimento apicale che simula il lume intestinale dove passa il cibo, ed un compartimento basale, che simula il torrente circolatorio dove vengono assorbite le sostanze nutritizie.
Nella versione più semplice i due comparti sono separati solo da uno strato di cellule epiteliali e da una membrana permeabile. Nella versione più complessa le cellule epiteliali sono appoggiate sul tessuto connettivo come avviene in vivo.

Creare un servizio basato sull’intestino artificiale rivolto alle aziende

A oggi, il sistema è gestito dal laboratorio dell’Università, che progetta di arrivare a fornire un servizio di analisi vero e proprio alle aziende nei prossimi svolgimenti. 
Spiega Gandolfi: «Lo scopo finale cui puntiamo in questa fase, per il momento ancora sperimentale, è ricevere dalle ditte i mangimi che devono essere testati: può trattarsi di diete complete, singoli additivi o mix di additivi oppure composti bioattivi, in grado di stimolare la risposta immunitaria o inibire il danno cellulare; noi possiamo verificare diversi aspetti interessanti; per esempio se l’elemento testato danneggia la barriera intestinale, se favorisce o inibisce l’assorbimento di aminoacidi, se ha eventuali effetti riparatori su precedenti danni cellulari reversibili. Oppure alcuni additivi possono controbilanciare i danni cellulari provocati da alcune componenti della soia o della chitina degli insetti, rendendo possibile l’inserimento di determinati ingredienti nella composizione dei mangimi; inoltre, misurando l’intensità di determinati effetti, i nostri test permettono anche di stimare il numero minimo di pesci necessario per valutarli in vivo ottenendo dei dati statisticamente validi».

Concluso il progetto, si sta lavorando ora per standardizzare i metodi e renderlo concretamente proponibile come servizio alle aziende. Spiega ancora Gandolfi: «In questa fase è molto importante confrontare i risultati degli stessi mangimi testati parallelamente in vivo e in vitro, per verificare a quali risultati ottenuti sulle cellule in vitro corrispondono determinati effetti ottenuti negli allevamenti in vivo, e paragonando i ranking ottenuti  nei due sistemi. I nostri parametri sono infatti ovviamente diversi da quelli in vivo: se in vivo, ad esempio, si valuta la velocità di crescita del pesce, noi invece valutiamo per esempio l’assorbimento cellulare o l’integrità della membrana o l’assorbimento di aminoacidi. Per noi in questa fase è quindi fondamentale imparare a collegare i risultati misurati in vitro con quelli misurati in vivo. Per questo stiamo usando diete di vario tipo. Con analisi specifiche, per esempio, abbiamo verificato che, se sottoposte a una formulazione particolarmente difficile da digerire le cellule in vitro proliferavano: con analisi in vivo abbiamo potuto appurare che nei pesci questo corrispondeva a un processo di allungamento dell’intestino, con molte più pliche e diramazioni. Un caso che mostra come, per capire le corrispondenze, bisogna affiancare i due metodi: per capire, per esempio, quali parametri in vitro diano indicazioni sulla digeribilità, quali sull’efficacia e così via».

Hanno fatto parte del team di ricerca dell’Università di Milano, che ha collaborato al progetto con altri enti di ricerca italiani e stranieri e con una delle maggiori aziende di produzione di mangimi per l’acquacultura, oltre a Fulvio Gandolfi, i docenti Tiziana Brevini e Sara Panseri, i ricercatori Rolando Pasquariello, Radmila Pavlovic e Nicole Verdile e la studentessa di PhD Federica Camin. 

Terminato il progetto, Gandolfi, Brevini e Verdile hanno dato vita a NUTRIsim, una start-up che ricevuto una menzione speciale alla Seed 4 Innovation dell’Università di Milano del 2024 e ha ottenuto un finanziamento per passare dalla fase sperimentale alla proof of concept, per verificare la possibilità di realizzare un vero e proprio servizio proposto alle aziende. Grazie a questo finanziamento sono state assunte due giovani neolaureate, Deborah Marchisio e Gaia Bosco, che sono state addestrate all’uso di queste nuove tecnologie. Ultimo ma non meno importante, la presenza nel team di un alto numero di ricercatrici ha permesso a NUTRIsim di vincere il Premio Speciale Invitalia per l’imprenditorialità femminile nel contesto della 14° edizione del premio 2031, la più importante competizione italiana per innovatori e startup.