Si è aperta ieri e prosegue oggi a Parigi la cerimonia di inaugurazione dell’International Year of Quantum Science and Technology, promosso dall’UNESCO in occasione del centenario dallo sviluppo iniziale della meccanica quantistica, la teoria che spiega i fenomeni naturali che avvengono su scala atomica e subatomica.

Nel 1925, Werner Heisenberg, allora venticinquenne, mostrò per la prima volta come la meccanica quantistica potesse essere vista come una generalizzazione della meccanica classica. Ma la nascita della teoria viene fatta risalire al 14 dicembre del 1900, quando Max Planck, rispettato fisico teorico, presentò nella sede della Società di Fisica Tedesca a Berlino, la formula matematica che descriveva la radiazione emessa da un corpo nero, assieme alla sua interpretazione. La formula implicava che l’energia del sistema poteva assumere solo certi valori, non era cioè la familiare variabile continua su cui erano basate tutte le teorie fisiche sviluppate fino a quel momento, dalla meccanica, all’elettromagnetismo e alla termodinamica.

Comincia in quel pomeriggio del 1900 il racconto che il fisico teorico Giuseppe Mussardo fa di questa entusiasmante e, per certi versi, unica avventura scientifica nel libro appena pubblicato Dio gioca a dadi con il mondo. La storia della meccanica quantistica (Qbit, Castelvecchi editore, 2025, 588 pagine).

Mussardo è un fisico di grande esperienza, che nel 2005 ha fondato il gruppo di fisica statistica alla SISSA dove lavora tutt’oggi. Da diversi anni ormai affianca alla ricerca una feconda attività di divulgazione scientifica che lo ha portato a produrre documentari e libri sulla storia della fisica del Novecento e sui suoi protagonisti.

Il libro mostra come lo sviluppo della teoria quantistica possieda tutte le caratteristiche delle grandi scoperte scientifiche. È un’impresa collettiva e corale, basata sul lavoro e sul confronto di tanti scienziati. È un processo incrementale, che costruisce sui risultati precedenti, li arricchisce, ne offre nuove interpretazioni. È anche una storia sul rapporto tra fisica e matematica. Quest’ultima emerge come uno spazio di maggiore libertà in cui gli scienziati possono azzardare ipotesi rivoluzionarie. È, ancora, una storia su come, in fisica, teoria e dati si confrontino costantemente, si pongano domande reciproche, si diano conferme o si smentiscano. È infine una storia sulla fisica teorica, che in questo periodo acquisisce una sua dignità autonoma, superando le diffidenze degli scienziati nati nell’Ottocento ancora molto influenti nei primi decenni del Novecento.

Il libro è ricco di riferimenti biografici sui suoi protagonisti: Max Planck, Albert Einstein, Ernst Rutherford, Niels Bohr, Arnold Sommerfeld, Max Born, Wolfgang Pauli, Werner Heisenberg, Paul Adrien Maurice Dirac, Erwin Schrödinger, e tanti altri. Mussardo usa le loro storie personali per costruire il tessuto narrativo del libro, ma si spinge anche oltre. Mostra come le storie familiari e le personalità influenzino gli stili scientifici e cognitivi di ciascuno, e come queste si siano composte tra loro contribuendo all’evoluzione e, infine, all’accettazione di questa “teoria pazza” da parte della comunità scientifica.

La resistenza incontrata dalla meccanica quantistica è raccontata da Mussardo soprattutto attraverso la dialettica tra due personaggi che attraversano l’intero arco narrativo del libro, Albert Einstein e Niels Bohr.

Entrambi nati alla fine dell’Ottocento, ebbero ruoli molto diversi in questa storia. Albert Einstein propose per primo nel 1905 l’idea che la luce fosse composta da corpuscoli, indipendentemente dal fatto che interagisse con la materia. Ciascun corpuscolo secondo Einstein era dotato di una quantità di energia legata alla sua lunghezza d’onda, tramite la costante introdotta da Planck nel 1900 per spiegare la radiazione emessa da un corpo nero.

Partendo da questa teoria, sfruttando i nuovi dati che arrivarono nel primo decennio del Novecento sugli spettri di emissione degli atomi, e considerando il modello atomico proposto da Ernst Rutherford, Bohr stabilì le nuove regole del gioco atomico. Gli elettroni possono occupare solo certe orbite attorno al nucleo, piccolissimo e posizionato al centro dell’atomo. In queste orbite gli elettroni potevano rimanere stabilmente almeno per qualche tempo ed emettevano energia solo quando passavano da un’orbita all’altra. Con questa ipotesi Bohr riuscì a spiegare perché, illuminando gli atomi, questi emettano luce solo in corrispondenza di certe frequenze.

Bohr fondò la sua teoria sui fenomeni che osservava ed ebbe il coraggio di respingere le obiezioni che gli venivano mosse, convinto che il mondo che descriveva fosse ordinato da regole diverse da quelle conosciute fino ad allora. Una delle obiezioni più forti fu quella sull’instabilità degli atomi.

Rutherford, insieme ai suoi collaboratori Geiger e Marsden, aveva proposto un modello planetario per gli atomi, in cui il nucleo gioca il ruolo del sole e gli elettroni quello dei pianeti. L’atomo non era quindi uno spazio omogeneo, come sosteneva Joseph John Thomson, lo scopritore dell’elettrone, dal prestigioso Cavendish Laboratory a Cambridge. Al contrario era uno spazio sostanzialmente vuoto. Questa ipotesi era basata su un’osservazione straordinaria fatta dal gruppo di Rutherford all’Università di Manchester. Inviando delle particelle alfa (che più tardi si scoprì essere nuclei di elio) su una sottilissima lamina d’oro, una su diecimila veniva rimbalzata all’indietro e molte erano deviate di angoli maggiori di novanta gradi. Rutherford commentò così:

È stata la cosa più sbalorditiva che mi sia mai capitata. Era incredibile, più o meno come sparare un proiettile da cannone contro un foglio di carta velina, e vederlo rimbalzare indietro.

In una lettera del 1910 indirizzata al fisico americano Bertram Boltwood, Rutherford scrisse poi:

Penso di poter proporre un modello atomico decisamente superiore a quello di J.J. [Thomson] per quanto concerne la spiegazione della diffusione delle particelle alfa. E penso inoltre che andrà straordinariamente d’accordo con i dati sperimentali.

Ma gli elettroni, a differenza dei pianeti, hanno una carica elettrica, e le equazioni di Maxwell, la teoria sviluppata dal fisico inglese nell’Ottocento e celebrata per la sua compiutezza matematica e la sua capacità di spiegare i fenomeni elettrici e magnetici, prevede che muovendosi perdano energia. Conoscendo la carica elettrica e la dimensione delle orbite atomiche, i fisici di allora stimarono che l’atomo era destinato a dissolversi in qualche milionesimo di secondo. Ma Bohr resistette.

Einstein, che dopo il suo articolo sull’effetto fotoelettrico pubblicato nel 1905 si dedicò alla teoria della relatività ristretta e poi generale, fu il più illustre tra i critici della teoria di Bohr. Lo diventò soprattutto dopo che Heisenberg in pochi giorni del luglio 1925 trascorsi sull’isola di Helgoland dove si era recato per sfuggire ai pollini che a Gottinga gli causavano terribili febbri da fieno, diede inizio alla “seconda fase” di questa storia.

La teoria di Bohr, confermata da esperimento dopo esperimento e che era riuscita a spiegare le regolarità della tavola periodica di Mendeleev, trovava il suo fondamento nella “meccanica delle matrici” di Heisenberg, che costringeva però ad abbandonare i principi di causalità e determinismo.

Su questo Einstein non fu disposto a cedere, soprattutto quando l’interpretazione “di Copenaghen” portata alle sue estreme conseguenze indicò che certe caratteristiche del mondo atomico e subatomico “non esistono” se non c’è nessuno a osservarle e misurarle.

Bohr ed Einstein si incontrarono una prima volta durante l’estate del 1922 a Gottinga, quando il matematico David Hilbert invitò Bohr a tenere un ciclo di lezioni sulla sua teoria dei quanti. I due scienziati si piacquero e si scambiarono lettere amichevoli da lì in poi. Forse questo fu in parte dovuto all’atteggiamento che Bohr aveva verso la sua teoria, molto più critico e aperto allo scrutinio dei colleghi di quanto si potesse pensare. Lo dirà Heisenberg, anche lui a Gottinga quell’estate, a commento del suo primo incontro con colui che poi diventerà il suo grande maestro.

Compresi per la prima volta che il punto di vista di Bohr sulla propria teoria era molto più scettico di quello che avevano a quel tempo altri fisici, per esempio Sommerfeld, e che la sua capacità di visione profonda della struttura della teoria non era il risultato di un’analisi matematica delle ipotesi di base, quanto piuttosto un’intensa attenzione ai fenomeni reali, così che gli era possibile sentire intuitivamente le relazioni più che derivarle formalmente. E così compresi: la conoscenza della natura è ottenuta in prima battuta in questo modo e soltanto come passo successivo si può riuscire a fissare la propria conoscenza in forma matematica, facendone oggetto di un’analisi razionale.

Il loro confronto terrà banco anche in uno degli episodi più famosi di questa storia, il quinto congresso Solvay, organizzato a Bruxelles nel 1927. Mussardo affida ancora alle parole di Heisenberg la descrizione dell’atmosfera del congresso.

Di solito ci incontravamo già a colazione in albergo, e Einstein cominciava a descrivere un esperimento ideale in cui secondo lui le contraddizioni interne dell’interpretazione di Copenaghen erano particolarmente visibili. Einstein, Bohr e io camminavamo insieme dall’albergo al palazzo dei congressi, e ascoltavo la vivace discussione tra loro due i cui atteggiamenti filosofici erano così diversi. […] All’ora di pranzo continuavano le discussioni tra Bohr e gli altri di Copenaghen. Di solito Bohr terminava l’analisi completa dell’esperimento ideale di Einstein entro il tardo pomeriggio e la mostrava a Einstein a tavola. Einstein non aveva alcuna obiezione a questa analisi, ma in cuor suo non ne era convinto.

Il quinto congresso Solvay si chiuse con la vittoria di Bohr, e con questo scambio tra i due colleghi «Una volta di più» disse Einstein «vuoi convincermi che Dio giochi a dadi con il mondo». «Smettila per favore di dire a Dio che cosa deve fare con i suoi dadi» fu la risposta fulminante di Bohr.

Il sesto congresso Solvay nel 1930 fu l’ennesima occasione in cui Einstein cercò di sfidare la tenuta della meccanica quantistica attaccando il principio di indeterminazione con uno dei suoi esperimenti mentali. Bohr riuscì a smontarlo per l’ennesima volta, usando proprio la teoria della relatività generale. Einstein capitolò, convinto tuttavia che quella appena persa non fosse la guerra, ma solo una battaglia.

Il racconto prosegue con un capitolo che mostra come la meccanica quantistica abbia aperto la strada della teoria quantistica dei campi, nata dalle osservazioni del geniale e glaciale Dirac e che diventò in seguito il linguaggio della fisica delle particelle elementari e delle loro interazioni. Mussardo dedica poi un capitolo all’invenzione della bomba atomica, introducendo nel racconto scienziati come Oppenheimer, Fermi e Rabi, e tratteggia le luci e le ombre della figura di Heisenberg durante il regime nazista. La narrazione si conclude negli anni Sessanta, per raccontare l’episodio finale del confronto tra Einstein e Bohr.

Nel 1933 Einstein lasciò la Germania, dopo ripetuti episodi di violenza antisemita che gli fecero temere per la sua vita, e si stabilì a Princeton, in New Jersey, nel neonato Institute for Advanced Studies. Lì nel 1935 su sollecitazione di due suoi giovani collaboratori, Boris Podolsky e Nathan Rosen, Einstein riprese in mano la faccenda e insieme scrissero l’articolo diventato poi famoso con il nome di “paradosso EPR”, dalle iniziali dei tre autori. L’articolo venne anticipato da un titolo allarmato sul New York Times del 4 maggio 1935 “Einstein attacca la teoria quantistica. Lo scienziato e due suoi colleghi sostengono che nonostante la teoria sia corretta non è tuttavia completa.” Einstein si infuriò con Podolsky che aveva spifferato il contenuto del loro lavoro ai giornalisti prima che questo apparisse sulle pagine della rivista Physical Review, e indirizzò parole di fuoco al New York Times:

È mia prassi discutere argomenti scientifici nei luoghi appropriati per farlo e deploro la pubblicazione di qualsiasi annuncio fatto su tali soggetti negli articoli di quotidiani.

Era anche infastidito dal timore che l’argomento non fosse stato ben spiegato in quell’articolo e infatti per una sua formulazione chiara si dovette attendere il 1957. In quell’anno David Bohm e Yakir Aharonov riscrissero l’argomento EPR in termini della misura dello spin di due particelle in uno stato entangled e della possibilità di spiegarne i risultati tramite variabili nascoste, piuttosto che accettare l’idea che gli spin fossero indeterminati fino all’atto della misura e che solo questo li costringesse in uno stato preciso.

Einstein chiamava in causa le variabili nascoste per riportare la probabilità, introdotta in meccanica quantistica da Max Born nel 1926 a seguito dei lavori di Schrödinger, nei termini di quella che lui stesso aveva usato per descrivere il moto browniano. La probabilità secondo Einstein non era una caratteristica intrinseca della natura, ma era piuttosto conseguenza di un certo grado di ignoranza da parte dell’osservatore. Nel caso del moto browniano, Einstein sosteneva, usare distribuzioni di probabilità per le velocità delle molecole di un gas era un modo per evitare di seguirne le traiettorie individuali istante dopo istante. Allo stesso modo, dovevano esistere delle distribuzioni statistiche di certe variabili nascoste che gli sperimentatori non conoscevano. Come risultato, le loro osservazioni non potevano che essere una media inconsapevole su tali distribuzioni.

Il libro si conclude col colpo di genio dell’irlandese John Stewart Bell che negli anni Sessanta lavorava al CERN sia come fisico sperimentale, occupandosi di acceleratori di particelle, che come teorico. Ma non solo. Scrive Mussardo:

A tempo perso coltivava uno strano hobby, quello di occuparsi dei fondamenti della meccanica quantistica, stando attento che questo suo interesse non interferisse con il lavoro per cui era pagato, presso il più grande centro europeo di fisica.

Bell riuscì a costruire una quantità misurabile sperimentalmente che avrebbe permesso di capire se Einstein, Podolsky e Rosen avevano ragione: la sua famosa disuguaglianza. Saranno infine John Clauser nel 1972 e Alain Aspect nel 1982 a realizzare gli esperimenti in modo sufficientemente accurato da poter affermare che la disuguaglianza di Bell viene violata e quindi che la probabilità della meccanica quantistica è una proprietà intrinseca del mondo atomico e subatomico che descrive. Einstein non visse abbastanza per vedere questi risultati e morì convinto del suo punto di vista, ben sintetizzato in una lettera indirizzata a Max Born il 7 settembre nel 1944.

Le nostre prospettive scientifiche sono ormai agli antipodi tra loro. Tu credi in un Dio che gioca a dadi e io in una legge completa e nell’ordine, in un mondo che esiste oggettivamente, che io, in un modo selvaggiamente speculativo, sto tentando di catturare. Lo credo fermamente, e spero che qualcuno scoprirà un modo più realistico, o piuttosto una base più tangibile di ciò che è stata mia sorte fare.

Conclude così Mussardo il suo volume di quasi cinquecento pagine mostrando come davvero la meccanica quantistica sia stata una sfida all’intuito dei fisici del Novecento e come lo sia ancora oggi. Significativa è a questo proposito una frase pronunciata nel 1958 da Wolfgang Pauli con cui Mussardo apre il libro

Quello che possiamo sperare di ottenere in fisica è semplicemente di fraintendere a un livello più profondo.