Della legge 20 luglio 2000 n. 211, Istituzione del Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti, è spesso negletta la seconda parte. Rimediare alla perdurante dimenticanza dei “deportati militari” è, invece, storicamente importante, perché la loro esistenza è stata numericamente rilevante e chiama in campo e appesantisce ulteriormente le responsabilità della Repubblica sociale italiana.
Non appena, nel tardo pomeriggio dell’8 settembre 1943, Radio Londra e Radio Algeri resero noto che il governo italiano guidato dal maresciallo Badoglio aveva firmato l’armistizio con gli Alleati, le truppe tedesche stanziate in Italia, nella Francia meridionale e nei Balcani, dove si trovano reparti italiani, ricevettero l’ordine di Berlino di dare immediata attuazione alle direttive del piano Achse, da tempo decise per tale eventualità: disarmo immediato e cattura con internamento, fino a decisioni ulteriori, di ufficiali o soldati che non si fossero dichiarati immediatamente disponibili a continuare a combattere al fianco dell’esercito tedesco; sequestro di tutti gli automezzi di cui gli italiani disponevano e dei loro depositi di munizioni, di carburante e di viveri. Nell’arco di pochi giorni in Italia e Francia meridionale e di circa tre settimane nei Balcani, i reparti della Wehrmacht disarmarono oltre un milione di militari italiani.
Mario Avagliano e Marco Palmieri forniscono maggiori dettagli sulla vicenda che seguì l’8 settembre: in pochi giorni i tedeschi disarmarono e catturarono 1.007.000 militari italiani, su un totale di circa 2.000.000 sotto le armi. Di questi, 196.000 scamparono alla deportazione, fuggendo o grazie ad accordi intercorsi tra i loro comandanti e quelli tedeschi che si limitarono a disarmarli. Dei rimanenti 810.000 circa (di cui 58.000 catturati in Francia, 321.000 in Italia e 430.000 nei Balcani), oltre 13.000 persero la vita per azioni inglesi di siluramento durante il trasporto dalle isole greche alla terraferma. Altri 94.000, tra cui la quasi totalità delle Camicie nere (Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, MVSN), accettarono subito l’offerta di passare con i tedeschi. Nei campi di concentramento nazisti vennero, così, deportati circa 710.000 militari italiani con lo status “internati militari italiani” (IMI) e 20.000 con quello di prigionieri di guerra. Entro la primavera del 1944, altri 103.000 si dichiararono disponibili a prestare servizio per la Germania o la RSI, come combattenti o come ausiliari lavoratori. In totale, quindi, furono 600.000 i militari che rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi. Anche se molti si opposero per antifascismo, le motivazioni della rinuncia non furono unanimi (M. Avagliano, M. Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi. 1943-1945. Il Mulino, Bologna, 2020).
Nel computo degli italiani entrati nei campi di concentramento e di lavoro nazisti e dei quali si onora la memoria il 27 gennaio, questi militari si aggiungono agli 8.564 (quasi tutti ebrei) deportati per motivi razziali e condotti ad Auschwitz (dei quali moriranno 7.555, il 90% circa) e ai 23.826 deportati politici (22.204 uomini e 1.514 donne) non passati per le camere a gas, ma sottoposti a durissime condizioni di vita e lavoro (ne moriranno 10.129, circa la metà).
Ufficiali e truppa, come da prassi, vennero separati: gli ufficiali (compresi medici e cappellani) erano detenuti in campi denominati Offizierslager (abbreviazione Offlag); gli altri finirono nei Mannschaftsstammlager (campi base di prigionia, abbreviazione Stalag). La decisione, del 20 settembre 1943, di conferire agli italiani lo status giuridico di internati militari e non di prigionieri di guerra, fu dello stesso Hitler: da un lato, escludendo lo stato di guerra, sanciva la continuità dell’alleanza con la RSI e, dall’altro, permetteva di aggirare la Convenzione di Ginevra. Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo Reich, scrisse nel suo diario, il 23 settembre 1943: «La catastrofe italiana si è rivelata un buon affare per noi, sia con la cattura delle armi, sia con l’acquisto di manodopera».
Mentre gli ufficiali furono lasciati negli Offlag, con la speranza di un loro ritorno alle armi, gli Stalag furono utilizzati come centri di smistamento dai quali distaccare prigionieri in decine di campi esterni e commando di lavoro (Arbeitskommando) e in campi secondari (Zweiglager). Gli internati italiani furono impiegati nei campi e nelle fattorie, nelle industrie belliche (alcuni anche nella costruzione dei missili V2, che costò la vita a un totale di 12.000 prigionieri di varia provenienza) e nei servizi antincendio delle città bombardate. L’unico canale di comunicazione tra il mondo esterno e gli IMI era rappresentato dal settimanale La voce della Patria, pubblicato dall’ambasciata repubblichina a Berlino dall’ottobre 1943 al settembre 1944, che perorava il sostegno alla RSI, sostenendo che le azioni tedesche nei confronti dei soldati italiani fossero giustificate dal tradimento di Badoglio.
Nel settembre 1944 una disposizione dell’Oberkommando der Wehrmacht (OKW) mutò di nuovo lo status dei militari (ufficiali compresi) in quello di “liberi lavoratori civili”: formalmente, non erano più prigionieri, ma restavano in Germania in forza di un’intesa tra Berlino e Salò, per contribuire col lavoro alla vittoria dell’Asse. Gli internati italiani, pur non subendo quasi mai un trattamento assimilabile a quello dei deportati nei campi gestiti dalle SS, furono sottoposti a vessazioni e crudeltà: erano frequenti le punizioni corporali e quelle collettive, benché ufficialmente vietate, sotto forma d’inasprimento delle condizioni lavorative o di riduzione del vitto. Anche l’abbigliamento era insufficiente: gli internati disponevano per lo più solo della divisa con la quale erano stati catturati, cosicché quelli che provenivano dal fronte greco o balcanico indossavano divise estive, inadatte all’inverno tedesco. Tali condizioni di vita sfociarono in patologie polmonari e gastro-enteriche e, in molti lager scoppiarono epidemie di tifo, causate dall’infestazione di pidocchi. La cifra degli IMI deceduti durante la prigionia è stimata essere tra 37.000 e 50 000.
La cattura dei militari italiani dopo l’8 settembre è spesso stata preceduta (o sostituita) da episodi di rifiuto di arrendersi ai tedeschi terminati con fucilazioni di massa, specialmente degli ufficiali: avvenne nell’isola greca di Kos, il 2 ottobre del 1943, dove fu sepolto in fosse comuni un centinaio di ufficiali fucilati. La vicenda è pressoché dimenticata, come le molte altre avvenute tra settembre e ottobre del 1943 nelle isole dell’Egeo, nella Grecia settentrionale, nelle isole joniche e lungo la costa adriatica. L’unico episodio sempre ricordato, per le sue dimensioni, è il massacro di Cefalonia. Altre uccisioni motivate da desiderio di vendetta contro gli ex alleati costellarono gli ultimi giorni di guerra. Ne è esempio il massacro di Treuenbrietzen: la sera del 21 aprile 1945, l’arrivo di truppe sovietiche e la fuga dei guardiani comportò l’apertura dei campi di lavoro della cittadina, destinati ai prigionieri di guerra e ai lavoratori forzati di diverse nazionalità, impiegati nelle aziende Kopp & Co e Dr. Kroeber & Sohn. Le truppe sovietiche, però, proseguirono la loro avanzata e un reparto militare tedesco, ritornato nel campo, separò gli internati militari italiani dal resto dei prigionieri e li trucidò in una cava. Delle 127 vittime accertate, 111 poterono essere identificate.
La maggior parte dei militari prigionieri ritornò in patria tra l’estate del 1945 e il 1946: da quando il 6 giugno fu riaperta la ferrovia del Brennero, cominciarono ad arrivarne 3.000 ogni giorno e 4.500 da agosto. Nello stesso periodo furono riaperti i varchi svizzeri del San Gottardo e del Sempione. Alcune migliaia di soldati catturati dall’esercito russo e da quello iugoslavo continuarono la prigionia per alcuni mesi dopo la fine della guerra. Le autorità sovietiche, in particolare, rilasciarono i prigionieri italiani solo nel settembre 1945 (10.000 rimpatri) e in ottobre (52.000 rimpatri).
Il rimpatrio si scontrò con la sottovalutazione della loro tragedia, quando non con la sua interpretazione come risultato di vigliaccheria: soltanto nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso la ricerca storica ha contribuito a configurare la vicenda nel suo reale significato. Scrive lo storico Giorgio Rochat, esperto di storia militare:
Nel dopoguerra… incombevano la guerra fredda, la divisione del paese, il bisogno di una ricostruzione, una classe dirigente che voleva evitare di riconoscere le sue responsabilità nel regime fascista. La scelta della maggioranza del paese fu di dimenticare la guerra, sia la guerra fascista con le sue imbarazzanti vicende (aggressioni, sconfitte, occupazioni), sia i suoi morti e reduci (tanti e diversi, ma nella grande maggioranza non fascisti), sia la guerra partigiana, che fu di volta in volta rimossa o criminalizzata o “neutralizzata” con una glorificazione asettica.
Gli uffici storici dell’esercito preferirono non effettuare ricerca sui rapporti tra forze armate e regime fascista o sulle scelte dei militari dopo l’8 settembre. Mentre in Francia, paese altrettanto lacerato da profonde divisioni tra i militari, i Services historiques ebbero l’incoraggiamento e i mezzi per studiare in termini scientifici oltre il 1945, fino alle guerre in Indocina e in Algeria, in Italia ci si limitò a consentire agli studiosi l’accesso agli archivi storici fino al primo dopoguerra e alle relazioni sulle campagne dell’esercito e della marina 1940-1943. L’incrocio tra le informazioni contenute nel Dizionario della Resistenza (Collotti E., Sandri R., Sessi F. Einaudi, 2000-2001), frutto dell’attività decennale degli istituti per la storia della Resistenza e nel contributo di Massimo Coltrinari (La Resistenza dei militari italiani all’estero. L’Albania. ed Ministero della difesa, 1999) permette di individuare quattro fronti di Resistenza contro il nazifascismo:
- la guerra partigiana, con la deportazione di partigiani e antifascisti nei lager tedeschi;
- la resistenza militare ai tedeschi nel settembre-ottobre 1943, continuata con la partecipazione di truppe italiane alla guerra partigiana nei Balcani;
- la partecipazione delle Forze armate regolari alla campagna d’Italia (la “guerra di Liberazione”);
- la resistenza senz’armi dei 600.000 militari prigionieri nei lager tedeschi, che in grande maggioranza, rifiutarono di sottrarsi alla prigionia aderendo alla Repubblica sociale.
I militari che dopo l’8 settembre passarono con i partigiani nei Balcani ebbero fortune diverse: trattati molto male dai greci, sia comunisti (con poche eccezioni) sia monarchici, essi furono, invece, accolti dai partigiani comunisti jugoslavi e albanesi con qualche difficoltà iniziale (fino a pochi giorni prima si sparavano), ma poi trattati come i loro uomini (fame, marce e privazioni). Erano molto apprezzati gli specialisti, medici e ufficiali di artiglieria e genio. Nei decenni successivi conservarono rapporti di amicizia (e periodiche rimpatriate) con i partigiani comunisti con cui avevano combattuto senza mettere in dubbio la loro lealtà all’esercito.
Nel dopoguerra l’esercito si ricompose senza una selezione politica: furono eliminati solo quelli che sotto Salò avevano commesso crimini “efferati” e quelli diventati comunisti nella guerra partigiana. Si scelse di non procedere a processi ed epurazioni e l’esercito riammise anche gli ufficiali che per evitare la prigionia in Germania avevano tradito il giuramento di fedeltà al re. Gli ufficiali partigiani non furono discriminati (alcuni giunsero ai vertici dell’esercito), ma la guerra partigiana fu rimossa (Rochat R. Atti del convegno “Le forze armate nella Resistenza”, organizzato a Savona il 14 maggio 2004 a cura dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Savona.