Quando un giornalista serio decide di scrivere su un argomento, prima si documenta bene, e magari cerca anche di avere esperienze dirette. È quello che ha fatto Kristoffer Hatteland Endresen in Un po’ come noi. Storia naturale del maiale (e perché lo mangiamo) (Codice edizioni, 2024). Non si sa se avesse in mente in partenza di scrivere un saggio o se si sia fatto prendere la mano, ma ne è uscito un report sulla storia condivisa dell’essere umano e del maiale: cultura, civiltà, scienza, a 360 gradi; il maiale c’è sempre stato, in ogni epoca, e il libro spazia su tutti gli aspetti del percorso condiviso.
Per fare le cose proprio bene, Endresen decide anche di farsi assumere e di lavorare in un allevamento di suini, sia pure con una certa difficoltà (i giornalisti in genere suscitano una notevole diffidenza tra gli allevatori).
Nel saggio, la cronaca e l’informazione sono alternate alle sue esperienze personali come suinicoltore; praticamente salta di palo in frasca e leggere è un po’ come stare su un treno la cui ferrovia corre in riva al mare: se si guarda a destra si vedono boschi e colline, a sinistra la spiaggia e le onde. Ma non è il lettore a decidere quando girare la testa bensì l’autore, e questo inizialmente può spiazzare un po’; il meccanismo si afferra però in fretta e poi si procede benissimo.
Si parte con un elenco di squisitezze gastronomiche a base di maiale, poi Endresen, dati alla mano, si domanda dove sono il miliardo di maiali allevati oggi nel mondo: pecore, vacche e polli in campagna si vedono (dove vive l’autore, cioè in Norvegia), maiali mai, neanche uno. Medita anche sul fatto che il maiale è presente già nella preistoria negli insediamenti umani, ma non è mai raffigurato. Nelle pitture rupestri ci sono cavalli, bovini, ovini, sia domestici che selvatici, ma non maiali. Eppure erano presenti, le loro ossa sono abbastanza frequenti, “smontate” come quelle degli altri animali che si cacciavano e mangiavano.
Il primo giorno di lavoro in allevamento è traumatico: ecco dove sono i maiali, ammucchiati a centinaia, spesso a migliaia, in capannoni chiusi, quasi bui, suddivisi in piccoli box nei quali sono ammassati gli animali nelle varie fasi di sviluppo. L’odore di ammoniaca lo prende alla gola e lo fa star male, cosa normale per chi non se lo aspetta, ma non molla. Però pensa che quei maiali «Qui dentro nascono, vivono sei mesi in uno spazio di circa un metro quadro per ciascuno e ne usciranno solo quando percorreranno il tratto che va dalla porta della stalla al furgone che li porterà al mattatoio». Un dettaglio al quale non pensa mai nessuno, finché non lo “vede”. Inizia così ad affrontare i temi della suinicoltura industriale, dell’uso di antibiotici e dello sviluppo di resistenze (che ovviamente interessa anche noi) e dei disastri conseguenti; o il tema dell’impatto ambientale dell’allevamento.
Poi, tornando dall’altro “lato della ferrovia”, Endresen assiste a un parto, alla nascita di una cucciolata. Decide di cercare di non farsi coinvolgere e cosa che pare funzionare, data la scarsa collaborazione dei cuccioli, che sono terrorizzati e fuggono o comunque si allontanano da lui ogni volta che cerca un contatto con loro.
Quindi sposta di nuovo lo sguardo e ripercorre la figura del maiale nella storia, dall’antica Roma al Rinascimento, la battaglia della chiesa in tutta Europa contro la zoofilia, per ragioni religiose prima e di crudeltà poi. Ripercorre anche il percorso del maiale nella scienza, gli studi anatomici, da Galeno alle esercitazioni in vivo odierne. Maiali oggi usati per i trapianti, dalle valvole aortiche a interi organi (gli xenotrapianti, in fase di studio), previa modifica via ingegneria genetica; e le chimere, cioè maiali ai quali sono stati inseriti geni umani, usati per la ricerca.
Ma Endresen continua a ripercorrere anche la sua esperienza: i maialini crescono, vengono sottratti alla madre e messi in un recinto a ingrassare. Dubbi, scrupoli e ragionamenti sull’aspetto morale del mangiare questa carne, prodotta cioè in questo modo: «Mi assale una domanda che ho respinto troppo a lungo: posso mangiare questi maiali e sentirmi a posto con la coscienza?», si chiede. Riflette di etologia, neurobiologia, welfare, o meglio il fatto che l’assenza di sofferenza fisica non significa per niente benessere, per animali senzienti e cognitivi. Tanto che in condizioni innaturali e fortemente stressogene i maiali sviluppano comportamenti aggressivi sia nei suoi confronti sia verso i conspecifici, a volte con conseguenze gravi, arrivando a uccidersi.
Finché, a un certo punto, si accorge che «In qualche modo sto diventando indifferente, i maiali si sono tramutati in oggetti, non sono più individui e ancor meno sono creature sensibili. Tutto questo influenza il modo in cui mi relaziono con loro, il modo in cui li tratto». Questo lo porta anche a domandarsi se fatto che vengano allevati per essere mangiati giustifichi l’indifferenza nei confronti della loro qualità della vita a favore del maggior profitto.
E viene il giorno che i maialini che ha visto nascere e che ha allevato sono pronti da macellare, e di nuovo Endresen vacilla, di fronte alle loro urla disperate, anche se sa che è più che altro paura perché sono costretti a uscire per la prima volta nella loro vita dall’unico mondo che conoscono per salire sul furgone: «C’è un suono in particolare che mi colpisce, un lamento triste e addolorato che non può essere associato a null’altro se non a un pianto. Cerco di ignorarlo, ma non ci riesco, per la prima volta mi sorprendo a pensare: cosa diavolo stiamo facendo?». Naturalmente non vuole saltare nessun passaggio, quindi sale sul furgone dove vengono caricati e portati al mattatoio. Tutte le fasi della macellazione, nelle quali assiste con un filo di stupore alla conversione di un essere vivente e senziente in porzioni di carne pulite e rosee, non collegabili al loro “produttore”.
Il saggio si chiude con una domanda che Endresen si era già posto nelle prime parti del libro: «Ha ancora senso chiedersi se è possibile mangiare questi animali senza avere la coscienza sporca?». Non è una domanda etica, è una domanda e basta; a differenza di altri saggi sugli animali, infatti, niente nei toni e nello stile di scrittura punta all’emotività del lettore o alla sua morale. Quella di Endresen è proprio una cronaca asettica e distaccata, anche quando si pone domande o descrive certe situazioni. Sembra suggerire che sta al lettore scegliere e decidere l’atteggiamento nei confronti di quello che legge. E ci riesce molto bene.